di Giampaolo Milzi
Una piccola odissea burocratica, ma molto benefica per la cosiddetta lapide dei “Marrani”, posta nel 1992 in piazza Malatesta ad Ancona per commemorare il rogo che nel maggio del 1556 trasformò in cenere la vita di 24 ebrei (ma il numero è incerto) accusati di falsa conversione al cattolicesimo e di continuare segretamente a svolgere i riti e le funzioni ebraici. Rimossa il 9 febbraio 2017 per iniziativa dell’assessore comunale alle Mautenzioni Stefano Foresi per essere restaurata, finalmente mercoledì scorso è stata riposizionata nella zona terminale dei giardinetti della piazza. Ha lavorato ad arte la ditta “Galeazzi Lapidi” di Tavernelle, su commissione del Comune, per una spesa di circa 1000 euro: cancellato lo scarabocchio in vernice spray con cui alcuni graffitari incivili lo avevano oltraggiato, splende di nuovo candido ed esente da crepe il marmo su cui sono state reincise in nero (al posto del rosso scuro originario) le parole, nella parte iniziale in ebraico, sotto in italiano, ad imperitura memoria di una delle pagine più vergognose della storia anconetana; sostituiti coi due nuovi pali di sostegno in acciaio quelli vecchi mangiati dalla ruggine e che rischiavano di cedere da un momento all’altro. E poi una novità, che spiega – assieme a qualche lungaggine legata a difficoltà di comunicazione tra Amministrazione comunale e Comunità ebraica anconetana – il grande ritardo registrato per la reinstallazione dell’opera, quasi un anno, visto che era stata prevista per il maggio 2017. Novità dovuta alla accurata ricerca che nei mesi scorsi ha visto impegnato Nahmiel Ahronee, ministro di culto dei fedeli dell’Antico Testamento biblico nella Dorica, il quale, quando la targa era stata smontata, si era accorto di alcune imprecisioni nei caratteri ebraici. “Un lavoro di cui non riuscivo a venire a capo, fino a quando, grazie all’aiuto di mio fratello e di due miei nipoti che vivono in Israele – spiega – siamo riusciti a ritrovare l’antica elegia originaria (“L’elegia dei deportati dalla Spagna”, ndr.) e a tradurre con precisione le parole da cui erano state molto liberamente tratte le frasi in italiano che ne sintetizzavano il contenuto”. Una traduzione che Cronache Ancona può fornirvi ora in anteprima: “Signore mio in lutto amaro – l’esilio di Spagna sarà – assai il nostro cuore – tremante e temente resterà – poiché sede sacra – tanto si trova degradata – come fosse pagliaio – dall’estraneo con vanto – duramente colpita – e al suolo rasata”. Versi molto poetici che, nelle intenzioni del ministro di culto, previa domanda al Comune e con una piccola spesa suppletiva a carico della Comunità ebraica, la ditta Galeazzi dovrebbe riportare su una targhetta da sistemare a margine della lapide. Le quattro frasi in ebraico e l’elegia che le contiene erano state probabilmente scelte nel 1992 da Claudio Calderoni e Cesare Tagliacozzo, allora rispettivamente presidente e rabbino della Comunità ebraica di Ancona, forse anche concordare con Giovanni Spadolini, che era senatore a vita e autorevole storico. Fu Spadolini, del resto, a dettare la frase che caratterizza la seconda metà della lapide: “In memoria degli ebrei Marrani di una cieca persecuzione che risuona come monito perenne contro ogni forma di discriminazione negatrice dei principio della dignità umana e di rispetto dell’uno per l’altro su cui si fonda oggi come ieri la civiltà della ragione e della tolleranza”. Subito sotto il testo in ebraico, in attesa della targhetta suppletiva di completamento con la traduzione fedele, ne resta la sintesi decisa sempre nel 1992: “Gli esuli di Spagna in lutto hanno il cuore spezzato e affranto perché il loro santuario è stato distrutto e calpestato”. Ma chi erano precisamente questi esuli di Spagna, i marrani? In spagnolo “marranos”, porco, termine che a sua volta deriva probabilmente dall’arabo “mahram”, che significa “cosa proibita”, erano ebrei sefarditi (della penisola Iberica) che fin dal tardo Medioevo vennero costretti, il più delle volte con la forza e le minacce, a rinnegare la loro fede e ad abbracciare quella in Cristo. Già perseguitati nel XIV secolo, in Spagna divennero nemici pubblici – qualora rifiutassero una reale e fattiva conversione – all’indomani dell’istituzione dell’Inquisizione (1481). La persecuzione dei marrani si intensificò nel XVI secolo a seguito della nascita dell’Inquisizione anche in Portogallo, dove i primi furono espulsi già nel 1496. Ad Ancona, nel 1556, vivevano ben 3000 ebrei marrani (portoghesi, secondo alcune fonti, “esuli di Spagna”, secondo la lapide di piazza Malatesta). L’anno prima papa Paolo IV aveva ordinato che tutti i marrani venissero in ogni caso imprigionati. Sessanta di quelli anconetani, che riconobbero la fede cattolica come penitenti, vennero deportati a Malta o condannati a remare nelle navi; 24, che non vollero “riconciliarsi” e restarono fedeli al ritorno al giudaismo, furono prima strangolati e poi bruciati al rogo nel Campo della Mostra (così si chiamava piazza Malatesta) affollato di gente; quelli che sfuggirono all’Inquisizione vennero accolti a Pesaro dal duca di Urbino Guidobaldo II della Rovere. Il porto di Ancona e di conseguenza l’economia della città pagarono un duro prezzo per quella spietata oppressione e brutale esecuzione. I capi, molto influenti, delle comunità ebraiche note per i loro importanti traffici commerciali di vari Paesi, “iniziarono a remare contro” lo scalo dorico, e ne decretarono un fermo e generalizzato boicottaggio sotto la regia di Grazia Nasi, una delle donne ebree più ricche del Rinascimento.
Il Comune restaura la Lapide dei Marrani in piazza Malatesta
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