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Donne infettate con l’Hiv, il giudice:
«Ha minacciato l’ex compagna,
impedendole di curarsi»

ANCONA - Depositate le motivazioni della sentenza che lo scorso marzo ha condannato Claudio Pinti a scontare 16 anni e 8 mesi di reclusione per omicidio volontario e lesioni personali gravissime. Per il gup, avrebbe costretto l'ex compagna a non sottoporsi alle cure per tenere sotto controllo la sieropositività, minacciandola di non farle più vedere la figlia

Claudio Pinti in tribunale

 

di Federica Serfilippi

«Per costringerla a piegarsi al suo volere, a non farsi visitare, a non ricoverarsi nei momenti più drammatici della malattia, a non assumere quei farmaci che potrebbero salvarle la vita, l’imputato minaccia la compagna di portarle via la bambina». Lo ha scritto il giudice Paola Moscaroli nelle motivazioni della sentenza che lo scorso 14 marzo ha condannato Claudio Pinti a scontare in abbreviato a 16 anni e 8 mesi di reclusione per i reati di omicidio volontario e lesioni personali gravissime. Il 36enne, attualmente recluso nel carcere di Rebibbia e sieropositivo da una decina d’anni, era accusato di aver trasmesso il virus dell’Hiv all’ex convivente (nonchè madre di sua figlia minore) Giovanna Gorini, morta nel giugno 2017 per una patologia tumorale legata al virus, e all’ultima fidanzata, Romina Scaloni. A entrambe, secondo la procura, aveva omesso di essere malato. Scrive il gup che ha emesso il verdetto: «Pinti, da quanto fu informato del suo stato di sieropositività, ha assunto un atteggiamento “negazionista”, rifiutando ogni cura, e ancora prima, negando l’esistenza stessa della malattia. Deve ragionevolmente escludersi che l’imputato possa aver comunicato alla Gorini, all’inizio della relazione, un fatto che per lui era inesistente. D’altra parte, lo stesso comportamento reticente e addirittura mistificatorio ha caratterizzato il successivo rapporto con la Scaloni».

Romina Scaloni

Buona parte della sentenza è dedicata al rapporto tra Pinti e Giovanna, delineato anche da una serie di testimonianze raccolte dalla Squadra Mobile e finite nel fascicolo d’indagine aperto dai pm Pucilli e Bilotta. Stando al giudice, Pinti «influì in modo determinante sulla decisione della Gorini di non assumere la terapie antiretrovirale e, successivamente, di non affrontare le cure prescritte dai sanitari». Solo durante gli ultimi giorni di vita, Giovanna si era sottoposta a delle chemioterapie. Stando a quanto scritto nelle motivazioni, familiari e amici avrebbero voluto portarla più volte in ospedale per le sue condizioni di salute, ma lei avrebbe sempre rifiutato per paura di Pinti. Lui l’avrebbe tenuta in pugno, minacciandola di non farle più vedere la figlia. Giovanna «è stata descritta dai familiari – prima del rapporto con Pinti – come una persona solare e gioiosa, in seguito diventata molto fragile e impaurita, spaventata dai messaggi aggressivi e dalle minacce. In particolare, costantemente Pinti la minacciava di portarle via la figlia se non si fosse piegata alla sua volontà». Nelle motivazioni, il giudice non esita a riportare le testimonianze delle persone vicine a Giovanna, riferibili ai suoi ultimi mesi di vita. In questo arco di tempo, il 36enne avrebbe accusato l’ex di stare in ospedale perchè a casa non aveva voglia di fare nulla. In camera mortuaria avrebbe addebitato la morte di Giovanna alla chemioterapia. Sul rapporto con Romina Scaloni, la donna che ha scoperto di essere sieropositiva nel maggio dello scorso anno:  «Sussiste, dunque, un nesso causale – scrive i giudice – tra la condotta posta in essere da Pinti, il suo stato di sieropositività e il contagio conseguente della Scaloni».

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