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Paziente e fotografo nel reparto Covid:
«Dallo smartphone i ritratti
di un inferno inimmaginabile»

ANCONA - Si chiama 'Dentro la zona rossa' il reportage del 68enne Luciano Zamporlini che per cinque settimane ha combattuto il Coronavirus all'ospedale di Torrette. In bianco e nero, ha immortalato la drammatica quotidianità vissuta dagli operatori sanitari e dai pazienti: «La fotografia mi ha aiutato, ma ha anche lasciato tracce indelebili di dolore»

(ph. Zamporlini)

 

di Federica Serfilippi

Ha vissuto il Covid e ha deciso di raccontarlo per immagini perchè «mi sono trovato in un mondo che non pensavo potesse esistere. E’ come se un fotografo atterrasse sulla Luna e avesse attorno i marziani: quello che vedi è sconosciuto, ti spaventa, ma non puoi girarti dall’altra parte, non puoi ignorare quello che vivi».  La Luna è il reparto Covid 1 dell’ospedale di Torrette, l’ospite inatteso è il 68enne fotoreporter anconetano Luciano Zamporlini. Per cinque settimane ha combattuto il nemico invisibile da un letto del nosocomio regionale, con il respiro corto, la febbre alta e la tosse secca. Ma ha anche deciso di immortalare con il suo smartphone i momenti di una quotidianità drammatica vissuta dai pazienti e dagli operatori sanitari. Con un centinaio di scatti in bianco e nero è nato il fotoreportage dal titolo ‘Dentro la zona rossa’. Quattro parole che rendono bene l’idea dell’inferno in cui era caduto l’anconetano, risultato positivo al tampone lo scorso 11 marzo. E’ scattato subito il ricovero a Torrette, nel primo reparto allestito appositamente per contrastare il virus. «Da quel momento – racconta – purtroppo è successo di tutto. In ospedale sono arrivate sempre più persone, io ho avuto un periodo di distacco dalla realtà a causa delle mie condizioni, non capivo tutto quello che succedeva». Dopo una settimana di ricovero, l’idea delle foto. «Quando è scesa un po’ la febbre – continua Zamporlini – ho tirato fuori lo smartphone che avevo tenuto con me dal momento dell’ingresso in ospedale. Ho iniziato a fotografare dal mio letto gli altri letto, scattando un mondo che non credevo potesse esistere.  Le persone attorno a me, tutte bardate, erano come marziani. Sentire le notizie delle morti quotidiane è stato terribile, una realtà inimmaginabile».

(ph. Zamporlini)

In questo contesto, le immagini hanno rappresentato una sorta di catarsi per andare avanti: «Fotografare è stato doloroso, perchè mi ha lasciato tracce indelebili e pesanti dell’esperienza trascorsa in ospedale. Però, dall’altra parte, non potevo ignorare quello che vedevo. E’ come se un fotografo, all’improvviso, arriva sulla Luna: non si può fare finta di nulla».  E poi, «a volte la fotografia mi ha aiutato a pensare ad altro», ad uscire da quella terribile realtà in cui è rimasto intrappolato per più di un mese. Gli scatti sono stati fatti in momenti particolari: «Ho ripreso me stesso, gli altri pazienti e gli operatori nel momento in cui venivano nelle nostre stanze. Sono stati loro, medici e infermieri, la nostra famiglia. Non ci hanno mai lasciato e noi pazienti grazie a loro non ci siamo mai sentiti soli. Al personale va il mio grazie, perchè mi hanno salvato la vita. Senza di loro non ce l’avrei mai fatta. Posso dire di essere fiero dell’ospedale di Ancona». In cinque settimane sono stati anche stretti legami saldi, nati dalla forza di aver combattuto lo stesso nemico: «Con il mio amico di stanza ci sentiamo quasi tutti i giorni. L’esperienza vissuta insieme ci ha segnato, ci siamo dati forza e fiducia a vicenda. Dovevamo farcela». Il progetto di Zamporlini, specializzato proprio nelle immagini in bianco e nero, è fare degli scatti una mostra: «il virus non ti lascia: ho ancora dolori al petto e alla schiena. Finchè certe cose non si vedono, non si prende coscienza di quello che è stato». Parte del portfolio di Zamporlini è stato pubblicato sulla rivista Panorama.

(ph. Zamporlini)

(ph. Zamporlini)

(ph. Zamporlini)

(ph. Zamporlini)

Luciano Zamporlini

 

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