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Infermiere anconetano racconta l’Afghanistan:
«Abbandonato da noi occidentali
dopo vent’anni di promesse mancate»

L'INTERVISTA a Roberto Maccaroni, operativo al pronto soccorso di Torrette e per tre volte in missione con Emergency nel paese conquistato dai talebani: «Per la popolazione locale la guerra è una malattia endemica. E' come per noi l'influenza stagionale»

Roberto Maccaroni

 

di Federica Serfilippi

Tre missioni in Afghanistan, tutte concentrate a Lashkar-gah, città conquistata pochi giorni fa dai talebani. L’ultima risale al 2017. In precedenza, il 44enne Roberto Maccaroni, infermiere anconetano del pronto soccorso di Torrette e membro di Emergency era stato nel neo proclamato emirato islamico nel 2011 e nel 2015. Tre date diverse per uno scenario unico: la follia della guerra che rischia di diventare l’ordinaria quotidianità. Maccaroni, premio Adriatico Mediterraneo 2020, civica benemerenza nel 2019 e autore del libro “Prometto che Ritorno”, lo ha raccontato a Cronache Ancona.

Roberto, che ricordi ha delle missioni in Afghanistan?
«Ho condiviso quelle esperienze, trascorse nell’ospedale di Emergency a Lashkar-gah, con i colleghi internazionali e con quelli locali.  Ricordo questi ultimi con un certo pathos perché contrariamente a noi, che portiamo avanti missioni limitate nel tempo e che finiscono sempre con un ritorno, a fine giornata loro rientrano, sì, ma nelle loro case. Vivono sulla loro pelle quello che noi vediamo di riflesso, ovvero la vita  in una città dell’Afghanistan, teatro di combattimenti e scontri continui. Nel corso degli ultimi venti anni, ogni zona del paese – tranne pochissime aree – ha avuto momenti di intensità variabile, passando dai periodi tranquilli alle recrudescenze di un conflitto permanente».

Maccaroni impegnato in una esercitazione in Afghanistan

In queste situazioni, il rischio è vedere la guerra come una situazione di normalità?
«Noi operatori sanitari dovremmo sempre sforzarci di non farla diventare cosa normale, ma il rischio c’è.  Per la popolazione locale la guerra diventa una condizione più o meno normale. Ci sono colleghi – medici, infermieri – che hanno meno di 40 anni: loro sono nati in una situazione dove gli scontri già c’erano, e sono diventati adulti in una condizione di conflitto permanente».

Che pazienti arrivano nell’ospedale di Emergency?
«Sono quasi tutti civili che presentano ferite dovute alla guerra e, quindi, legate alle pallottole o alle schegge derivate dalle esplosioni. Ma se qualcuno viene ferito è come se fosse una cosa normale, un evento da mettere in conto. Faccio sempre questo paragone: in Afghanistan, la guerra è una malattia endemica. E’ come per noi l’influenza stagionale. Se la si prende, è normale».

Un’emergenza particolare che ricorda?
«Giugno 2017, 84 feriti arrivati in ospedale. Era esplosa un’autobomba».

In questi giorni, si è dibattuto molto sulla figura femminile in Afghanistan.
«La visione della donna parte da una cultura secolare e certi atteggiamenti hanno bisogno di tempo perchè possano essere migliorati. Nei nostri ospedali non abbiamo mai avuto grossi problemi, basti pensare che nel Centro di Maternità in Panjshir si eseguono 600 parti al mese, 20 al giorno. Ci lavorano prevalentemente donne e il personale è stato implementato negli ultimi anni. Adesso quello che succederà con il cambio di governo non lo sa nessuno».

In Afghanistan rimarranno operativi i presidi Emergency?
«Ci sono tre ospedali e vari first point aid. Dal punto di vista operativo, nulla è cambiato, seppur con qualche incremento di accesso dei feriti. E’ rimasta una parte del personale internazionale, qualche collega l’ho sentito, c’è preoccupazione, si stanno succedendo fasi concitate. C’è un senso di incertezza tra il personale locale, ovviamente».

Cosa sognano i suoi colleghi afghani?
«Non hanno mai visto un futuro prosperoso e di crescita, quello che gli avevamo promesso. Anche medici e infermieri conosciuti all’epoca delle missioni, con la possibilità di ottenere un visto se ne sarebbero andati via dal loro paese, pur avendo un lavoro stabile».

Drammatiche le immagini che provengono da Kabul, con i civili che cercano in tutti i modi di lasciare la città. Che effetto le hanno fatto?
«Ho provato un grandissimo dolore, il sentimento è corso verso quei colleghi che, nel tempo, sono diventati miei amici. Capisco il senso di smarrimento estremo che un abitante afghano può provare. E non posso non pensare alla rabbia provata per tutto quello che è stato promesso negli ultimi vent’anni. Ce ne siamo andati senza creare alcun tipo di passaggio. Abbiamo lasciato un paese con un “arrivederci” e basta. Qualcuno, prima o poi, dovrà farci i conti».

In Afghanistan ha lasciato un pezzo di cuore, raccontato anche nel libro “Prometto che Ritorno” (Vydia editore). Cosa augura a questo paese?
«Quello che si augura chiunque: la tranquillità. E’ un paese che credo abbia tutto il diritto di vivere una fase di stabilità che possa far vivere la popolazione in un modo che per noi è quasi normale. Gli afghani non hanno quasi mai potuto provare questa normalità».

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