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“Le vittime dimenticate.
D’Aleo, Bommarito, Morici:
la strage di via Scobar”

IL LIBRO è l’ultima fatica editoriale dell'avvocato Giuseppe Bommarito, che ricostruisce un eccidio avvenuto a Palermo nel giugno 1983, nel quadro della seconda guerra di mafia, nel quale persero la vita tre giovani appartenenti all’Arma tra cui un suo omonimo e lontano parente

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Giuseppe Bommarito

E’ appena stata pubblicata, edita da Affinità Elettive, l’ultima fatica editoriale dell’avvocato Giuseppe Bommarito, nostro collaboratore ormai da lunga data, autore di numerosi articoli ed inchieste sulla droga e sulla criminalità organizzata nel territorio marchigiano. Il libro, titolato “Le vittime dimenticate. D’Aleo, Bommarito, Morici: la strage di via Scobar”, ricostruisce un eccidio avvenuto a Palermo nel giugno 1983, nel quadro della seconda letale guerra di mafia, nel quale persero la vita tre giovani appartenenti all’Arma, il capitano Mario D’Aleo, l’appuntato Giuseppe Bommarito e il carabiniere Pietro Morici.

Ecco l’introduzione del libro.libro-bommarito

La strage di via Scobar, avvenuta nel giugno 1983 e costata la vita a tre giovani uomini dell’Arma, si inserisce a pieno titolo nella stagione della mattanza e delle stragi passata alla storia come la seconda guerra di mafia. Una guerra vera e propria, condotta con grande spargimento di sangue dai corleonesi e dai loro alleati, contro le cosche rivali, i pentiti e i loro parenti, per giungere alla loro totale eliminazione. Ma anche contro lo Stato, da colpire e da intimidire uccidendo quegli uomini – magistrati, carabinieri, poliziotti, politici, giornalisti – che non erano disposti ad abbassare passivamente e opportunisticamente la testa e a lasciare che in Sicilia l’illegalità criminale – la mafia – dilagasse e la facesse sempre più da padrona grazie alla violenza e alle collusioni con parte dell’imprenditoria locale e pezzi importanti della politica e delle istituzioni. Tra il 1978 e il 1983 nell’isola si scatenò l’inferno e il barometro volse costantemente al brutto. Palermo, in particolare, fu messa a ferro e fuoco e trasformata in un grande scannatoio. Qualcuno, non a caso, parlò espressamente di città mattatoio. Sirene a tutte le ore, cadaveri a terra, ambulanze, frasi di circostanza e dolori autentici dopo le tante sventagliate di kalashnikov. In questa guerra fu registrato un migliaio di vittime, numeri spaventosi – mai visti prima – di “ammazzatine” (così i killer definivano con beffardo sarcasmo i loro spietati omicidi tra cosche rivali, mentre le stragi con il tritolo erano gli “attentatuni”): persone uccise senza pietà in mezzo alla strada o in casa, fatte saltare in aria, sparite nel nulla della lupara bianca, sciolte nell’acido, murate nei tralicci di cemento, sepolte sotto strati di asfalto, date in pasto a maiali affamati da giorni di digiuno.

strage-via-scobarAlla base di tutto questo sangue, oltre ai grandi cambiamenti nell’economia criminale dovuti al traffico internazionale degli stupefacenti, alla diffusione di massa dell’eroina risalente a quell’epoca, agli immensi profitti illeciti garantiti dalla droga, che alterarono profondamente i precedenti equilibri ed ebbero un peso notevolissimo, pure la feroce ambizione di dominio della sanguinaria cosca di Corleone – sino ad allora tenuta ai margini anche dal grande business della droga –, ai cui vertici erano arrivati a colpi di lupara, pieni di rabbia e di ambizione, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella, con Luciano Liggio ormai in fase discendente poiché in carcere da diversi anni. Da oltre un decennio i principali clan mafiosi di Palermo e dintorni, in stretta sinergia con le organizzazioni mafiose trapiantate negli Stati Uniti che erano contigue a livello parentale e avevano bisogno di rimpiazzare Cuba – ormai passata nelle mani di Fidel Castro – come luogo di transito della droga verso gli Usa, avevano assunto un ruolo decisivo nel lucroso traffico di stupefacenti, in special modo dell’eroina, in quell’epoca diretto principalmente oltre Atlantico. Erano stati abili a sfruttare la particolare  posizione geografica della Sicilia, ideale anello di passaggio tra il Medio Oriente, luogo di produzione della materia prima (l’oppio), e gli Stati Uniti, che negli anni Sessanta erano il principale mercato di consumo dell’eroina stessa. Decisivo per questo affare criminale, che già nei primi tempi garantiva notevoli guadagni illeciti, seppure nemmeno lontanamente paragonabili agli enormi profitti registrati nei decenni successivi, fu anche il ritorno forzato in Italia, proprio a cavallo tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, di numerosi mafiosi italoamericani, anche di gran peso, espulsi d’imperio dalle autorità governative nordamericane in quanto dichiarati indesiderabili. Tra i più famosi Lucky Luciano, Frank Coppola e Joe Adonis, i quali, facendo leva sulla loro esperienza nel settore e sui legami che comunque mantenevano con i malavitosi mafiosi ancora negli Usa, seppero convincere i capi di allora della mafia siciliana, inizialmente restii, ad affiancare ai loro settori tradizionali di intervento – usura, estorsioni, edilizia, appalti pubblici, contrabbando di sigarette – anche il traffico degli stupefacenti, l’eroina in particolare. Risale al 1957, per la precisione, il famoso summit tenutosi a Palermo presso il “Grand Hotel et des Palmes” tra importanti famiglie mafiose siciliane e statunitensi (totalmente ignorato dalle forze dell’ordine), che pose le prime basi per l’ingresso a tutto campo delle cosche nostrane nel lucroso mercato dell’eroina, un mercato criminale dai margini di profitto enormi. In quell’occasione si presero tutti gli opportuni accordi sulle quantità e la qualità della “roba”, i prezzi, le modalità delle spedizioni e dei pagamenti, le compensazioni per le consegne andate a male, i sistemi per le comunicazioni, i rispettivi referenti.

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I tre carabinieri uccisi

All’inizio l’oppio, la sostanza base, era prodotto soprattutto in Turchia (solo più tardi sarebbero subentrati i paesi del cosiddetto “triangolo d’oro”, Birmania, Thailandia e Laos, e ancora dopo l’Afganistan, oggi in posizione quasi di monopolio) e, tramite i necessari procedimenti chimici, veniva trasformato in eroina in laboratori clandestini situati nel sud della Francia e gestiti dalla malavita còrsa e marsigliese. Il prodotto finale veniva quindi per la maggior parte ceduto ai clan mafiosi siciliani che, proprio per i loro legami anche familiari con i mafiosi americani, riuscivano a far arrivare facilmente l’eroina negli Stati Uniti. Qui, di anno in anno la domanda cresceva e lo spaccio, sostenuto da una struttura criminale forte e ben radicata, girava di conseguenza, all’epoca quasi esclusivamente per il tramite di una rete molto consistente di pizzerie appartenenti di fatto alla Cosa Nostra americana (da ciò il nome della famosa inchiesta giudiziaria condotta dalla polizia federale statunitense tra il 1979 e il 1984: “Pizza connection”). Un affare, quello scaturito dalla partnership siculo-americana, che prese a correre così veloce che in pochi anni era già divenuto di enormi dimensioni. Nei primi anni Ottanta Giovanni Falcone, a chiusura dell’istruttoria su “Mafia e droga”, calcolò in circa ventimila miliardi annui di lire (una cifra colossale per l’epoca) il ricavato illecito, cioè l’accumulo di capitali derivante dall’eroina raffinata in Sicilia e poi trasportata e venduta negli Stati Uniti. Per quanto riguarda l’Italia e il mercato europeo, la svolta decisiva in tema di consumo di eroina iniziò a delinearsi nei primi anni Settanta. Per una serie di motivi di natura sociale, politica ed economica – che non è possibile qui analizzare – il mercato italiano dell’eroina, gestito e “spinto” in maniera quasi monopolistica dai clan mafiosi palermitani e incentivato dalla grande disponibilità della sostanza che arrivava in Sicilia dalla Francia e dalla scarsa consapevolezza e sottovalutazione del fenomeno da parte delle istituzioni, divenne proprio in quel periodo sempre più largo e appetibile. Un mercato così favorevole che, trascorso appena un decennio, negli anni Ottanta si registravano, in rapporto al numero dei potenziali consumatori, più eroinomani nel nostro Paese che negli Usa. Il mercato italiano ed europeo cresceva infatti in maniera tumultuosa e così i clan mafiosi siciliani, sempre più avidi e bramosi di ricchezze illecite, decisero a un certo punto, proprio per l’esigenza di abbattere i tempi e per aumentare i guadagni, di smarcarsi dai marsigliesi, peraltro sottoposti a forte pressione investigativa dalla autorità francesi su richiesta dell’amministrazione statunitense (in Italia, a Carini, solo 25 chilometri da Palermo, venne scoperta nel 1980 la prima raffineria di eroina, gestita da tecnici francesi a servizio del boss Gerlando Alberti). ù

Un deciso cambiamento di rotta, per il quale però occorrevano anche tanti soldi. Sicchè le cosche procedettero a una serie impressionante di rapine in banca messe a segno tra il 1978 e il 1980, finalizzate a reperire quel fiume di denaro indispensabile per inserirsi nel circuito internazionale dei grossi traffici (soldi che gli ‘ndranghetisti, per entrare nel giro della cocaina, avevano invece messo insieme con i proventi dei sequestri di facoltosi personaggi del Centro e del Nord dell’Italia, modalità dai malavitosi siciliani, soprattutto dai corleonesi, utilizzata solo in rarissime occasioni e principalmente in chiave di provocazione contro le odiate cosche palermitane, che non volevano sequestri nell’isola). Subito dopo, rinforzata considerevolmente la liquidità, avevano cominciato a far giungere il prodotto base in grossi quantitativi direttamente in Sicilia, via mare o via terra. E qui – ecco la novità più significativa –, per lucrare ancora di più, ora lo lavoravano direttamente con tecnici formati in loco, dopo aver rispedito a casa i chimici già al servizio dei marsigliesi. In quell’epoca furono creati sofisticati laboratori per la trasformazione dell’oppio in eroina purissima, nascosti dentro casupole, stalle e magazzini tra le montagne e le campagne delle zone interne, indispensabili per aumentare il peso di Cosa Nostra nello scacchiere internazionale della droga: con le raffinerie a due passi, gestite in proprio tramite appartenenti alle cosche, si saltava un passaggio della filiera, si riducevano i tempi e i guadagni illeciti lievitavano sempre di più. E così Palermo divenne nell’arco di pochi anni la più importante raffineria d’Europa, l’Eden della raffinazione, il crocevia del mercato internazionale degli stupefacenti, la capitale mondiale del narcotraffico, e Cosa Nostra, ormai ricchissima, in quell’epoca era accreditata dagli investigatori di molti Paesi come l’organizzazione criminale più potente al mondo, che gestiva da sola oltre il 30 per cento del mercato americano dell’eroina. Una ricchezza criminale enorme – disse poco prima della morte il giudice Rocco Chinnici in un famoso discorso, quasi profetico, rivolto agli studenti di una scuola di Palermo –, rivolta soprattutto contro i giovani, contro la vita, la coscienza, la salute.

Tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, quando era la mafia siciliana a gestire in prima persona il business, l’ammontare dell’eroina intercettata e sequestrata dalle forze dell’ordine su scala mondiale crebbe di quasi sei volte e mezzo; ciò nonostante, il numero dei soggetti tossicodipendenti, anziché diminuire, si dilatò in maniera paurosa, sino a evidenziare, di fronte a un’opinione pubblica sbigottita, quello che era ormai divenuto un consumo di massa. Un consumo inarrestabile, quasi incontrollabile, che, travolgendo ogni scrupolo morale in capo a chi dirigeva il traffico, non risparmiò nemmeno la Sicilia – come alcuni capiclan inizialmente avrebbero voluto, per poi spartirsi anche le piazze di spaccio locali puntando velocemente al portafoglio pieno – e che inevitabilmente portava i consumatori alla ricerca continua e spasmodica della dose e dei soldi per acquistarla, ai furti, alla galera, alla prostituzione, all’overdose, spesso e volentieri fatale. Numerose inchieste giudiziarie condotte su entrambi i versanti dell’oceano Atlantico ebbero a delineare a cavallo tra anni Settanta e gli anni Ottanta il ruolo di primo piano nel mercato della droga, lungo la direttrice Italia-Stati Uniti, di quattro famiglie mafiose siciliane: gli Spatola-Inzerillo, i Gambino, i Bontate e i Badalamenti, tra di loro storicamente alleate anche per rapporti di parentela e in strettissimo rapporto con le famiglie americane con loro egualmente imparentate. L’affare droga però era troppo grosso e appetitoso e tutti ormai volevano diventare miliardari in poco tempo. Ed è principalmente su questo terreno reso incandescente dall’altissima posta in gioco, e per scalzare l’egemonia di quelle famiglie che di fatto lo monopolizzavano, che si scatenò, su iniziativa della cosca di Corleone e dei loro alleati, la nuova guerra dei clan, la seconda guerra di mafia, in realtà una vera e propria campagna di sterminio condotta con omicidi mirati e stragi indiscriminate. All’inizio ci fu il risentimento verso Gaetano Badalamenti, il boss di Cinisi, che, senza nulla dire agli altri componenti della cupola provinciale palermitana di cui in quell’epoca era a capo, aveva messo in piedi un suo personale e fruttuosissimo traffico di eroina verso gli Usa; poi iniziò una serie continua di ammazzamenti reciproci tra i corleonesi e gli appartenenti ai clan palermitani e catanesi sino ad allora egemoni, e infine il diluvio, la lotta aperta e spietata per il potere, per l’egemonia, la pulizia etnica nei riguardi degli esponenti delle cosche perdenti. Sangue dappertutto e a tutte le ore, come nei peggiori incubi. Un massacro durato anni dal quale, come la storia criminale di quegli anni ha dimostrato in maniera inequivocabile, emersero nettamente vincenti i corleonesi di Riina, Provenzano e Bagarella, e vide come vittime non solo centinaia di malavitosi appartenenti alle famiglie rivali (148 solo nel 1982), ma anche, per rappresaglia, per vendetta, per intimidazione, figli, parenti e amici di pentiti e collaboratori di giustizia che, senza colpa alcuna, dovevano essere anch’essi puniti e messi a tacere per sempre. La sconfitta delle cosche palermitane che avevano i giusti contatti negli Stati Uniti (a differenza dei corleonesi e dei loro alleati) e la tenaglia giudiziaria che si sviluppò contestualmente sia in Sicilia (il maxiprocesso voluto da Falcone e Borsellino) che negli Usa (il processo denominato “Pizza Connection” voluto dal procuratore Ralph Giuliani), portarono, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, a un netto ridimensionamento di questo business, che tuttavia non venne del tutto abbandonato dalla mafia siciliana, pur senza mai più ritornare ai “fasti” dell’epoca d’oro e ai frutti sperati dai corleonesi.

La seconda guerra di mafia fu comunque la stagione tragica dei massacri che, come si è detto, colpirono duramente, con la violenza di un uragano, anche quei magistrati e appartenenti alle forze dell’ordine e alle istituzioni che, non essendo disposti a fare solo per finta la guerra alla mafia, potevano compromettere il loro grande business. Rispetto a questi servitori dello Stato, la mafia non esitò a porsi come un vero e proprio contropotere, pronto ai più efferati delitti. Uomini dal cuore generoso, uomini veri percepiti come ostacoli dai mafiosi, uomini che non furono aiutati dallo Stato, anzi quasi sempre furono lasciati soli, mandati allo sbaraglio, di fatto mandati a morire nella loro piena consapevolezza, senza protezione alcuna e con tanti nemici insospettabili nascosti persino in mezzo ai colleghi di lavoro, tra opportunismi, paure e forme più o meno evidenti di collusione, se non di vera e propria corruzione. Un bagno di sangue senza precedenti. Lungo, troppo lungo e triste è l’elenco di questi servitori dello Stato che hanno versato il loro sangue per affermare sino in fondo i principi della legalità e della giustizia. Di fatto, agnelli sacrificali. I loro nomi vengono ricordati ogni anno, il 21 marzo, giorno di ingresso della primavera, ormai dedicato alla lotta contro tutte le mafie e alle loro vittime innocenti. Tra queste ci sono anche quelle della strage di via Scobar 22 a Palermo avvenuta il 13 giugno 1983: il capitano dei Carabinieri Mario D’Aleo, comandante della Compagnia di Monreale, l’appuntato Giuseppe Bommarito e il carabiniere Pietro Morici, caduti sotto il fuoco mafioso dopo aver patito sofferenze, pericoli, isolamento e gravi incomprensioni nell’ambito istituzionale, anche loro privati non solo della gioventù, ma di ogni radice, sogno, speranza per il futuro. Gia due preziosi volumi (Quando rimasero soli, Emanuele Basile e Mario D’Aleo eroi dimenticati, di Michela Giordano, edito nel 2011, e Per sempre fedele. Diario di un uomo tra pagine di mafia, di Valentina Rigano e Marco D’Aleo, edito nel 2018) hanno ricostruito questo eccidio, cogliendone i nessi con gli sviluppi della seconda guerra di mafia, con le sue motivazioni legate principalmente al controllo del traffico interno e internazionale di eroina, con la lotta intestina che vide infine come cosche vincenti i clan che gravitavano proprio intorno a Monreale (i corleonesi e i loro alleati, soprattutto il clan satellite Brusca di San Giovanni Jato), con le prime raffinerie di eroina posizionate nei pressi e con i latitanti di grandissimo peso (Salvatore Riina e Bernardo Brusca) che si nascondevano in quel territorio e lì si muovevano come fantasmi imprendibili e inafferrabili. A questi libri di recente si è aggiunto un volume scritto da Francesca Bommarito, sorella di una delle vittime, titolato Albicocche e sangue, che, oltre a descrivere le dinamiche della carneficina e la difficile ricerca delle specifiche motivazioni dell’uccisione del fratello, ha fornito anche una commovente e intima ricostruzione, oltre che del carabiniere anche dell’uomo Giuseppe Bommarito e dei suoi rapporti con tutta la sua vasta e amorevole famiglia, sino a giungere al racconto dei funerali di Stato.

Nel presente libro, scritto in vista del quarantesimo anniversario della carneficina di via Scobar, s’intende invece mettere in luce la storia, oltre che dell’uomo, dell’appuntato Giuseppe Bommarito, morto a 38 anni, e soprattutto le motivazioni che ne hanno fatto una vittima non certo casuale dei clan mafiosi legati ai corleonesi. Anche Giuseppe, infatti, come la sua famiglia ha sempre sostenuto, era una vittima non solo designata ma pure consapevole del suo tragico destino. Da tempo sotto tiro per la sua capacità investigativa, ha pagato il coraggio manifestato in prima persona non chiedendo il trasferimento da Monreale dopo l’uccisione del capitano Basile e anzi proseguendo, a fianco di Mario D’Aleo, il suo impegno nelle indagini su personaggi di Monreale e dintorni importanti per la loro caratura istituzionale o malavitosa, ben sapendo che sottoscrivere determinati atti comportava la propria condanna a morte da parte del tribunale della mafia. Anche Giuseppe, sebbene consapevole del destino che lo attendeva, non volle fare passi indietro. Non è quindi morto per caso, come per molto tempo incredibilmente si è voluto far credere e come tuttora in molti ritengono anche negli ambienti dell’Arma. Pure per lui, uomo giusto, carabiniere inappuntabile, marito, padre e fratello encomiabile, è quindi ora che la verità, per troppo tempo denegata o raccontata in maniera parziale, venga riportata finalmente alla luce, come da anni, ancora prima dell’uscita dell’ultimo libro sopra ricordato, stanno cercando di fare, con grande impegno e con un’incessante e preziosa ricerca documentale e di testimonianze personali, la sorella Francesca e gli altri familiari, in primo luogo i figli Salvatore e Vincenzo.  La strage di via Scobar, nonostante la sua indubbia gravità, è stata quasi dimenticata, inspiegabilmente passata in sordina, inizialmente ha faticato anche a essere qualificata di matrice mafiosa e ancora oggi stranamente non compare in molte ricostruzioni di quegli anni terribili.

Ed è la cosa che oggi, a distanza di quaranta anni da quell’eccidio, più salta agli occhi: una strage in qualche modo obliata. Un silenzio piuttosto singolare, considerato che quell’eccidio (avvenuto a distanza di soli tre anni dall’omicidio nel pieno centro di Monreale del precedessore del capitano Mario D’Aleo, il capitano Emanuele Basile) non è una vicenda criminale uguale o simile a tante altre avvenute in quell’epoca, né è un evento minore nella lunga e sanguinosa sfida tra gli inquirenti e i criminali mafiosi. Tanto che, proprio per la sua rilevanza, venne decisa dalla Commissione provinciale ormai egemonizzata da Riina ed eseguita – come appunto avveniva negli eccidi più significativi – da un gruppo di fuoco composto da esponenti di diverse “famiglie”. In sostanza l’eccidio di via Scobar, posto in essere in una zona ad altissima densità mafiosa, costituì uno sfregio, uno smacco tremendo, un’arrogante sfida frontale all’Arma, con una portata mai verificatasi né prima né dopo quel tragico 13 giugno 1983, della quale non tutti hanno colto, o, meglio, voluto cogliere la rilevanza. Quanto alla matrice legata alla criminalità mafiosa, doveva bastare quanto ebbe a dire con la sua consueta lucidità il presidente Sandro Pertini, presente ai funerali delle vittime del triplice omicidio, senza incertezza alcuna e centrando immediatamente il problema: «Questo è un delitto di mafia. No, non occorrono leggi speciali. Ma coraggio, volontà, iniziativa». Eppure, stranamente, per molti anni il movente mafioso del triplice omicidio è rimasto nell’ombra, evanescente, incerto, dapprima negato, poi timidamente affermato, in seguito quasi finito nel dimenticatoio, anche della memorialistica più informata e accurata. Chi scrive è Giuseppe Bommarito, avvocato in Macerata, originario dal lato paterno di Terrasini (Palermo), omonimo e lontano parente di una delle tre vittime dell’eccidio di via Scobar, entrato in questa vicenda per una serie incredibile di avvenimenti e di coincidenze, il cui figlio Nicola, morto per overdose nel 2009, è di fatto, sia pure indirettamente, anche lui una vittima delle mafie, principalmente di Cosa Nostra, che ha avuto negli ultimi decenni del secolo scorso un ruolo determinante, se non centrale, nella diffusione dell’eroina e nella moltiplicazione dei consumatori nel mondo occidentale ed anche nel nostro Paese.

 

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