di Marco Benedettelli
«Sono orgogliosa degli italiani, delle persone che sono scese in strada a protestare. Ci hanno dato forza mentre eravamo in carcere, ho mostrato le immagini dei cortei alle mie compagne di detenzione e ci siamo sentite sollevate e la nostra sicurezza è venuta anche da loro. Tornare, e vedere tutto quello che è successo in questi giorni, mi riempie di una grande emozione, quasi maggiore di quella che provavo là», con queste parole, e con tante altre piene di riconoscenza, anche sofferenza, consapevolezza e voglia di leggere tutto con speranza, Silvia Severini si è rivolta alle amiche e agli amici di Ancona che l’hanno abbracciata alla Casa delle Culture, oggi pomeriggio alle 18. Stanca, ma felice, la donna anconetana che si è imbarcata un mese fa con la Global Sumud Flottilla e che ha passato gli ultimi due giorni nelle carceri israeliane di Ketziot, ha trovato ad accoglierla una piccola folla di persone care e di cittadini riconoscenti, con fiori, uno spumante e anche uno striscione e qualche fumogeno acceso dagli attivisti del Coordinamento Marche per la Palestina.
«Non siamo stati trattati bene, soprattutto dalla polizia di terra che da subito è stata dura, che ci ha tenuti seduti o in ginocchio, per ore o anche più appena scesi al porto. Ma per fortuna non ho ricevuto maltrattamenti, o percosse, come capitato ad altre persone. Abbiamo patito la sete, l’acqua era pochissima, oppure quando per esempio è stata distribuita una bottiglia diviso sei, come accaduto nel pullmino verso l’aeroporto del rimpatrio, subito facevano di nascosto riprese per smontare eventuali accuse di patimenti», sono le parole della donna, cinquantaquattrenne madre di due figli, reduce da questa esperienza che ha contribuito gli scorsi giorni a scuotere l’Italia e riempire le piazze. «Proprio uno dei miei figli, Lorenzo, con il suo attivismo mi ha dato l’esempio e mi ha spinto a impegnarmi in questa causa. Lui, già molto prima di me, si impegna per il popolo palestinese».
Tra i tanti ricordi e emozioni, la referente marchigiana della Global Sumud Flottilla ha raccontato che fuori le loro celle, nel cortile del carcere, era stata allestita, a modo di sorta di coreografia di accoglienza, una gigantografia con la città di Gaza, in una grande foto con un orizzonte ridotto a macerie e un uomo solo che camminava nella desolazione, con sotto a didascalia la scritta “Gaza Oggi”. Ad assisterla, una avvocata palestinese italofona, e poi è arrivato il console italiano. Silvia ha così avuto modo di firmare un documento per il rimpatrio, operazione che è avvenuta in un aeroporto a sud di Tel Aviv, con un charter organizzato dalla Turchia per Istanbul e poi per Roma, dove l’attivista è atterrata alle quattro di domenica mattina assieme ad altri membri dell’equipaggio italiano .
«Ci siamo imbarcati tra una fila di soldati che ci guardavano con disprezzo, così come noi facevamo con loro», e ancora «sono stati due giorni di carcere lunghissimi, dal punto di vista emotivo, ci siamo coalizzati tra noi per farci forza. Non avevo mai indossato la Kefiah in vita mia, non mi sembrava il caso, lo faccio ora, dopo aver sperimentato le carceri israeliane». E ancora, continua Silvia Severini: «Scoprire ora quello che è successo in Italia, la vicinanza che è scattata, ci ha sconvolto. Le manifestazioni a Roma e in tutto il mondo, mentre ancora eravamo lontani dall’Italia, ci hanno dato una spinta fortissima».
E rispetto alla dichiarazioni della premier Giorgia Meloni, che la flottilla non fosse in mare per solidarietà ma per altre ragioni, Severini scuote il capo: «Sono parole senza senso, abbiamo negli ultimi mesi rivoluzionato tutta la nostra vita per andare incontro al popolo palestinese. La nostra missione di pace nasce come una risposta alla violazione dei diritti umani che si è consumata in quel paese, anzi, noi dell’equipaggio ci siamo detti che non dobbiamo fermarci, che una flottilla deve ripartire dinnanzi a tutti i soprusi dei diritti umani».
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