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La lezione di Giovanni Falcone
e le infiltrazioni mafiose nelle Marche

23 MAGGIO 1992/2017 - A 25 anni dalla strage di Capaci la mentalità non è cambiata. Nonostante i segnali evidenti, tanti politici ed amministratori delle nostre parti continuano a negare la presenza delle mafie. In questo modo la nostra regione resta un'isola felice, ma solo per la criminalità organizzata

L’avvocato Giuseppe Bommarito

di Giuseppe Bommarito

E’ difficile trovare parole originali per ricordare Giovanni Falcone a 25 anni dalla sua tragica fine, che coinvolse in una morte annunciata anche la moglie e gli agenti della scorta. I giornali ne sono pieni e raccontano tutti di un uomo che viene tanto portato sugli altari oggi quanto venne ostacolato e persino deriso negli anni negli anni frenetici e gravosi della sua attività di servitore dello Stato, dapprima a Palermo nell’Ufficio Istruzione del Tribunale e poi a Roma, al Ministero di Grazia e Giustizia, come direttore generale degli Affari Penali, ove proseguì, nonostante le odiose accuse di tradimento e nonostante le molte umilianti sconfitte subìte (come Consigliere Istruttore a Palermo, come Alto Commissario Antimafia, come candidato al CSM, come Procuratore Nazionale Antimafia), la sua generosa ed implacabile battaglia contro la mafia, destinata purtroppo a concludersi nel peggiore dei modi.

Mi sembra allora più utile, per un collegamento con quanto sta avvenendo nella nostra zona, concentrare brevemente l’attenzione su una fase dell’attività di magistrato di Falcone, quella che, verso la fine degli anni settanta, e poco prima che iniziassero le sue indagini (poi sfociate nel primo maxi processo di Palermo) su quel complesso reticolato di uomini, affari, politica e sangue denominato Cosa Nostra, lo vide combattere con i fatti e con indagini sempre più precise e meticolose contro i vertici degli stessi uffici giudiziari palermitani e contro buona parte dei media e dell’opinione pubblica siciliani, schierati nel sostenere, a mo’ di fuoco di sbarramento, che in Sicilia la mafia come organizzazione criminale non esisteva e che semmai essa costituiva un fenomeno puramente sociologico.

Giovanni Falcone

Ecco, questa fase mi ha ricordato i discorsi di tanti politici ed amministratori delle nostre parti, i quali sulla scorta di quanto anni fa ebbe presuntuosamente ed incautamente a dire l’allora sindaco di Milano Letizia Moratti (“la mafia in Lombardia e soprattutto a Milano non esiste”), si ostinano ancora oggi a sostenere, arrivando persino a negare l’evidenza, la decrepita tesi delle Marche come isola felice, non toccata, se non per marginali tentativi di infiltrazione, dalla presenza della criminalità organizzata ‘ndraghetista, camorrista e della stessa Cosa Nostra. Eppure i segnali sono evidenti e sono sotto gli occhi di tutti: diversi boss di elevato spessore criminale della ‘ndrangheta arrestati sulla costa; l’intero litorale maceratese e fermano trasformato in base logistica dei vari clan per la gestione dei traffici di droga, il supporto ai latitanti e il riciclaggio di tanti soldi sporchi in attività commerciali, soprattutto di grande e media distribuzione, e rivolte all’edilizia ed turismo; il triste primato delle Marche nella classifica del tasso di mortalità per overdose da sostanze stupefacente; la droga (pari ad oltre il 70 per cento degli immensi profitti illeciti delle mafie italiane) che da noi circola a fiumi.

Il tutto facilitato dalla scarsa consapevolezza sociale, dalla volontà delle istituzioni di negare la reale situazione, dagli scarsi organici della Direzione Distrettuale Antimafia marchigiana, dall’assenza nelle Marche di uffici e sedi operative della DIA (in pratica, lo stesso copione di disinteresse e di sottovalutazione riscontrato negli anni passati in Emilia Romagna, regione confinante dalle caratteristiche economiche e sociali simili alla situazione marchigiana, che, dopo tante sdegnate negazioni, un bel giorno si è svegliata con le mani insanguinate della mafia strette al collo).
L’esempio di Falcone ci sia quindi di stimolo per aprire gli occhi, interpretare e comprendere la realtà, renderci conto che effettivamente è corretto dire che le Marche sono un’isola felice, ma solo per la criminalità organizzata.

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