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«L’emergenza Covid è stata
uno tsunami per l’oncologia»

INTERVISTA alla professoressa Rossana Berardi, direttore della Clinica e della Scuola di Specializzazione che si occupa dello studio e della cura delle patologie tumorali. Nella prima fase della pandemia, «abbiamo continuato a garantire i controlli e le terapie ai pazienti, ma anche a perseguire la mission della ricerca». In alcuni casi sono state sostituite le visite in presenza con controlli in modalità telematica. «Per essere vicini anche a distanza abbiamo anche previsto nuove modalità di consulto da remoto»

Rossana Berardi

 

di Adriana Malandrino*

Di indiscutibile valore medico e scientifico- direttore della Clinica Oncologica di Torrette, della Scuola di Specializzazione in Oncologia Medica, del Centro di Riferimento regionale di Genetica oncologica, coordinatore della Breast Unit aziendale, docente alla Politecnica delle Marche, coordinatore regionale AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica)- la professoressa Rossana Berardi fa il punto con Cronache Ancona sulla situazione che vive l’oncologia durante la pandemia da Covid-19. E lo fa senza perdere di vista il lato umano dalla cura, anche durante quella che ha definito «l’ora più buia del sistema sanitario nazionale».

Professoressa, da inizio marzo in che modo il Covid ha impattato sul lavoro degli oncologi?  «L’emergenza coronavirus ha rappresentato un vero e proprio tsunami per le oncologie del nostro paese. Da una survey che abbiamo condotto a livello nazionale nel periodo del lockdown abbiamo potuto riscontrare come ben il 93,5% dei centri sia stato costretto a ripensare l’attività clinica. L’organizzazione complessiva ha retto l’urto della pandemia, visto che per il 63,7% gli oncologi degli ospedali hanno garantito la continuità terapeutica (per esempio con canali comunicativi alternativi come videochiamate) e, per il 58%, i centri hanno saputo gestire le risorse disponibili in maniera efficiente».

E a Torrette come vi siete organizzati?
«Il personale della Clinica Oncologica ha affrontato l’emergenza con assoluta dedizione e prontezza di risposta, continuando a garantire i controlli e le terapie ai pazienti oncologici, che sono tra i più fragili, ma anche a perseguire la mission della ricerca. Abbiamo tuttavia dovuto ripensare all’organizzazione interna: fin dall’inizio della pandemia abbiamo adottato tutte le opportune misure per limitare i rischi del contagio, dalla separazione dei percorsi tra aree Covid e non, alla sanificazione dei locali. Inoltre abbiamo attivato un triage telefonico preventivo per limitare gli spostamenti di pazienti laddove possibile, un triage infermieristico all’ingresso con anamnesi e controllo della temperatura corporea, l’uso di DPI (mascherine per i sanitari e per i pazienti), le regole di distanziamento. Non è stato consentito l’ingresso di visitatori e accompagnatori, non è ovviamente tuttora consentito l’ingresso a chi ha la febbre o sintomi simil influenzali che possano far sospettare un possibile contagio o a chi è stato a contatto con persone a rischio, inoltre abbiamo invitato tutti i pazienti a rispettare con attenzione le precauzioni anti-contagio. È stato ed è doloroso e siamo consapevoli della difficoltà a separarsi dai proprio congiunti, ma purtroppo è necessario per limitare il contagio dei pazienti fragili in ospedale. Per essere vicini anche a distanza abbiamo, tuttavia, previsto nuove modalità di consulto da remoto nonché realizzato eventi webinar per pazienti e associazioni».

La professoressa Berardi con il direttore del pronto soccorso Salvi e il dg Caporossi

Si parla molto, anche a livello nazionale, di impossibilità dei malati oncologici di accedere alle cure salvavita: com’è la situazione nel reparto che lei dirige? 
«La Clinica Oncologica ha mantenuto sempre l’attività di day hospital garantendo le cure oncologiche ai pazienti. Tuttavia nel picco pandemico della fase I alcuni pazienti avevano timore a recarsi in ospedale, per cui abbiamo cercato di sostituire le visite in presenza con controlli in modalità telematica, specialmente per quei pazienti in terapia con farmaci a somministrazione orale per cui era possibile evitare l’accesso in ospedale. Pur non essendoci delle indicazioni univoche, come oncologi abbiamo valutato caso per caso la possibilità o meno di differire i trattamenti chemioterapici, che per definizione sono salvavita. Ogni oncologo ha posto il massimo impegno a garantire l’adeguatezza, la continuità e la tempestività dei trattamenti urgenti, antineoplastici, valutando, come sempre, per ogni singolo caso la più adeguata tempistica e modalità di cura. Diversa è la situazione se parliamo di esami di screening: purtroppo in questo ambito a livello nazionale sono stati cancellati oltre 1 milione e 400.000 esami nei primi 5 mesi del 2020 ed è importante che ciò non si verifichi nuovamente. Alcune strategie da mettere in campo potrebbero essere, a mio avviso: potenziare la telemedicina, facilitare la consegna a domicilio dei farmaci orali e sostenere i pazienti a domicilio anche per le loro necessità, incrementare la possibilità di testare mediante tamponi i pazienti, potenziare la psiconcologia e l’assistenza domiciliare per le cure palliative».

I pazienti oncologici sono tra le categorie più fragili: che consigli sente di dare loro per affrontare al meglio la vita quotidiana e convivere con la presenza del virus?
«Il paziente oncologico che già si trova ad affrontare un momento di grande crisi nella sua vita- crisi individuale, familiare, esistenziale e fisica- di fronte all’insorgere di tale emergenza sanitaria, si sente ancora più fragile. Il consiglio per ridurre il rischio di contagio è quello che diamo a tutte le persone: attenersi alle raccomandazioni che prevedono, in particolare, l’utilizzo della mascherina, l’igiene delle mani, il distanziamento sociale, evitare assembramenti, ridurre le uscite. Relativamente all’aspetto psicologico, i pazienti riferiscono sentimenti ambivalenti: mentre da una parte hanno il timore di recarsi presso i presidi sanitari per effettuare terapia, per paura del contagio, dall’altra esplicitano la preoccupazione che rimandando i trattamenti, cure ed esami a seguito delle procedure di contenimento, la malattia possa prendere il sopravvento. A ciò si aggiunge la modificazione del rapporto con i propri curanti, con i familiari e con la rete sociale: non più strette di mano, abbracci e saluti affettuosi, non più contatto umano. Tutti gli attori in causa, pazienti, familiari e sanitari si proteggono reciprocamente mantenendo le “distanze” per paura di essere portatori di contagio e ciò amplifica il profondo stato di solitudine di cui già il paziente oncologico è portatore. Tale senso di fragilità aumenta sentimenti di paura, ansia, insonnia e depressione. Per questo dobbiamo continuare a sostenerli e a non interrompere quella catena di aiuto e di solidarietà, anche sul profilo psicologico con sostegno psiconcologico. Oggi cerchiamo di farlo con modalità diverse, telematiche, telefoniche, videotelefoniche, ma con la stessa dedizione e la stessa vicinanza. Perché stare a un metro di distanza, oggi, è un atto di amore».

 

L’ospedale di Torrette

C’è ancora spazio per racconti di speranza nel tempo che stiamo vivendo?
«Le accenno una storia di questi giorni: una paziente che da Reggio Calabria, nonostante le zone rosse e arancioni, è venire presso il nostro centro per il suo percorso di cura».

Il personale che lei coordina come ha risposto all’emergenza? 
«Essersi inventati in poche settimane una risposta efficace e rapida a un’emergenza inaspettata e colossale significa veramente aver scritto un pezzo di storia. Tutto il personale medico, infermieristico e OSS della Clinica Oncologica ha affrontato con professionalità, condivisione, tempestività e dedizione e un enorme sforzo, quella che è stata l’ora più buia del sistema sanitario nazionale. Queste sono state le risorse messe in campo come professionisti, sotto l’egregia guida della Direzione generale degli Ospedali Riuniti di Ancona, che fin da subito ha messo in atto tutte le risorse e le azioni organizzative e di percorso utili e necessarie per gestire l’emergenza. Oltre a tutto questo abbiamo sentito la vicinanza, il cuore e il sostegno, anche economico, di tante persone, imprenditori, cittadini, associazioni che hanno sostenuto l’ospedale donando circa 1 milione e mezzo di euro e sostenendo anche direttamente la Clinica Oncologica. Inoltre, durante la fase I della pandemia ben cinque dei medici che lavorano in Clinica Oncologica sono stati distaccati in reparti Covid per garantire continuità di cura ai pazienti oncologici che avevano contratto il covid».

Le capita mai di pensare che non ce la farete a sopportare l’impatto di questa seconda ondata e che il sistema sanitario non reggerà?
«Penso che in questa fase siamo molto meno resilienti. Durante la fase I della pandemia, in pieno lockdown, abbiamo condotto due studi sugli operatori sanitari, in particolare in ambito oncologico, da cui è emerso che l’82% degli operatori era preoccupato di essere a maggior rischio di contagio rispetto alla popolazione generale e il 93% temeva di poter trasmettere il virus ai familiari. Gravi erano le conseguenze psicologiche determinate da una condizione lavorativa ad alta probabilità di esposizione al contagio: per il 62% degli specialisti la qualità del sonno era peggiorata (il 58% riferiva di dormire meno), per il 49% la capacità di concentrazione era inferiore e per un oncologo su tre (35%) il livello di preoccupazione e stress si ripercuoteva sulla qualità dell’assistenza ai pazienti. È emerso anche come questa emergenza abbia cambiato non solo le nostre abitudini come professionisti, ma anche come genitori e caregiver. A una survey che abbiamo condotto a livello nazionale, 2/3 dei partecipanti riferiva di aver avuto ripercussioni sulla propria vita familiare (il 54% rispondeva “si”, il 16% “abbastanza”). E questo si è tradotto, per quasi un terzo dei rispondenti, nella difficile decisione di cambiare alloggio trasferendosi lontano dalla famiglia per evitare di esporla a un maggiore rischio di contagio; a questi si aggiungeva un ulteriore 7,2% dei casi, in cui era stato invece il nucleo familiare a trasferirsi in un’altra abitazione, mentre nel 6,6% dei casi a cambiare casa erano stati i figli. Se ripetessimo lo studio ora, dopo tanti mesi di pandemia, presumibilmente i risultati potrebbero far riflettere ancora di più, in parte per la maggiore diffusione del virus e quindi la maggiore possibilità di contagio, in parte per la minore resilienza che abbiamo ora».

È ottimista sull’arrivo del vaccino, per alcune categorie, all’inizio del 2021?
«Sì, sono ottimista perché ho molta fiducia nella ricerca e nell’impegno che tutti i ricercatori stanno mettendo in questo ambito. I risultati preliminari sono molto incoraggianti, ma naturalmente dobbiamo attendere quelli definitivi delle sperimentazioni. Ritengo che fin da ora le istituzioni si debbano organizzare per consentire l’accesso al vaccino, specie se questo richiederà speciali misure di conservazione (a -80°C) e distribuzione. I ricercatori stanno facendo la loro parte, ma non c’è tempo da perdere anche sul versante delle istituzioni».

 

Rossana Berardi

Per quanto concerne il reparto che coordina ci sono delle novità all’orizzonte, come risultati scientifici, nuovi trattamenti e terapie?
«Durante questo difficile momento abbiamo continuato sempre a perseguire la mission della ricerca. Proprio in questo periodo, infatti, abbiamo sviluppato e condiviso progetti di ricerca innovativi, tra cui studi pubblicati su prestigiose riviste internazionali, che hanno valutato l’impatto della pandemia sul disagio sociale, professionale e psicologico degli operatori e dei pazienti che ho in parte illustrato. Trentotto sono state le pubblicazioni che col mio gruppo abbiamo effettuato in poche settimane, tra cui alcune su terapie innovative, in particolare agenti biologici a bersaglio biomolecolare e immunoterapia. Abbiamo continuato anche a fare ricerca clinica, ovvero a condurre quegli studi sperimentali con nuovi farmaci che rappresentano nuove opzioni terapeutiche per i pazienti».

L’arrivo di questo virus ha stravolto la sua giornata?
«La mia giornata (e parte della nottata) è dedicata pressoché interamente al lavoro. La pandemia ha modificato la vita professionale più dinamica che mi portava ogni settimana fuori regione e all’estero per incontri di lavoro, convegni, riunioni di ricerca. Ora sono costantemente in Ospedale, le riunioni sono diventate telematiche e gli impegni lavorativi, che non hanno più i limiti degli spostamenti, sono aumentati a dismisura. Anche sul versante universitario tutto è cambiato: ora le lezioni sono in streaming e gli esami in piattaforma».

E veniamo appunto alla formazione. Lei è anche docente universitario, quale consiglio vorrebbe dare ai suoi studenti?
«Gli studenti stanno vivendo un momento difficile e ancor più gli studenti della Facoltà di Medicina perché la formazione del medico si acquisisce principalmente in presenza. Il mio ateneo, grazie alla guida del rettore Gregori, ha fin da subito garantito lezioni in streaming, materiale didattico online e, finché è stato possibile dal punto di vista normativo, anche lezioni in presenza. In questo momento così difficile agli studenti consiglio di non perdere di vista il sogno: è proprio nei momenti più complessi che non dobbiamo smettere di guardare al futuro e gettare le basi per costruirlo. Non è un caso che il motto che ho scelto per la mia Clinica sia l’aforisma di Pascal: “Per costruire il futuro bisogna prima sognarlo”. Io ho aggiunto…insieme…».

  • La giornalista Adriana Malandrino, che collabora con Cronacheancona.it, ha ottenuto un sostegno dall’European Journalism COVID-19 Support Fund (www.europeanjournalism.fund) per sostenere un’informazione corretta, verificata e aggiornata durante la crisi dovuta al Covid-19.

 

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