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Yasin e Hayat,
dalla tendopoli alla nuova vita di Jesi

SOLIDARIETÀ - I coniugi, profughi eritrei, insieme ai loro figlioletti, sono stati accolti nella città leonina grazie al progetto "Rifugiato a casa mia". Un orizzonte di umanità fatto di realtà che non li ha ghettizzati, umiliati, abbandonati o trattati come numeri da propaganda politica

La famiglia eritrea accolta a Jesi con il corridoio umanitario

 

I piccoli Rasik e Madila disegano con gli operatori Caritas

 

di Marco Benedettelli 

(foto di Ennio Brilli)

Mentre l’Italia si spacca e si dilania sul destino delle persone bloccate a bordo della Diciotti al porto di Catania, a Jesi c’è una piccola e preziosa storia da raccontare. I protagonisti sono una famiglia accolta grazie a un corridoio umanitario dall’Eritrea (come sono in maggioranza eritree le persone in stallo, mentre scriviamo, sulla banchina etnea) e coprotagonista è un gruppo di jesini che si sta dando da fare per aiutare i richiedenti asilo arrivati dall’ex colonia italiana nella loro città. Gli eritrei, Yasin e Hayat, marito e moglie con i loro figlioletti Rasik e Malidia di tre e sette anni sono atterrati in Italia a luglio grazie al progetto “Rifugiato a casa mia”, voluto dalla Comunità di Sant’Egidio, da Caritas italiana e altre realtà. Un’iniziativa diplomatica che per ora ha portato nel nostro Paese, in modo sicuro, legale, da uomini liberi e non da reietti delle tratte migratorie, centotrentanove persone, cavandole dal nulla dei capi per rifugiati nel Corno d’Africa. È un’operazione ancora limitata (coinvolgerà 500 rifugiati in tutto) ma cruciale perché dimostra che esiste una via per l’accoglienza più umana, se c’è la buona volontà.

Marco D’Aurizio, direttore Caritas Jesi

La Caritas di Jesi ha aderito, ha organizzato l’arrivo nella città leonina del nucleo familiare eritreo e per Yasin, Hayat, Rasik e Malida è iniziata una nuova vita. Sono usciti dalla tendopoli di Shimelba, un conglomerato di baracche di fango e lamiera nato all’inizio del Duemila durante la guerra fra Eritrea ed Etiopia. Un non-luogo di sole cocente e polvere nella regione settentrionale del Tigrai dove vivono, in modo ormai stanziale da quasi venti anni, più di settemila persone assistite da Unhcr, governo etiope e altre ong. «Siamo scappati dall’Eritrea dove c’è un regime militare molto duro. Esiste il servizio militare a vita e chi non si allinea alle regole del Governo non ha futuro» racconta Yasin, che in patria era infermiere e un giorno insieme alla giovane moglie, insegnante e oggi venticinquenne, ha deciso di lasciare Barantu, la sua piccola città, e di sfidare la sorte attraversando la frontiera. Per finire poi fra i 400mila profughi eritrei che vivono in tutta l’Etiopia, fermi a Shimelba, poco più a sud della città di Shire, in un’area dove di campi profughi eritrei ce ne sono altri tre, pieni di malati, famiglie numerose, ragazze madri e giovani che un giorno decidono di abbandonare anche la vita nelle tendopoli e prendere la rotta del deserto, verso – si sogna – la lontanissima Europa. Ma un giorno Yasin e la sua numerosa famiglia sono stati individuati come soggetti sensibili dall’Unhcr che opera nel campo, e quindi coinvolti nel progetto “Rifugiato a casa mia”. Quando sono atterrati a Roma avevano già i documenti di richiesta asilo in regola. Ad attenderli a Jesi c’era un piccolo appartamento messo a disposizione dalla Caritas, e attorno a loro una comunità formata da un paio di famiglie pronte a dar vita ad un circuito di accoglienza, a muoversi per integrare quei giovani arrivati da lontano secondo quella solidarietà spontanea fatta di aiuto per chi ha bisogno, italiano o straniero che sia, di cui la Caritas è un baluardo. «Due famiglie di jesini hanno mostrato loro la città, li hanno portati al mare, gli hanno insegnato dove fare la spesa, come cucinare le pietanze italiane, dove sono i centri vaccini per i bambini, i giardini pubblici, le scuole. Li hanno portati a conoscere le altre famiglie del condominio», spiega Marco D’Aurizio direttore Caritas Jesi. Si è attivato un orizzonte di umanità fatto di realtà, che nulla ha a che fare col rancore cupo e sterile spesso predominante nel dibattito contemporaneo a mezzo social. Ora Yasin, Hayat e i loro due figli aspettano il permesso di soggiorno, sognano di trovare un lavoro, si sentono comunque già dentro a una comunità, non ghettizzati, non umiliati, non abbandonati e trattati come numeri da propaganda politica. Ma fiduciosi verso il futuro.

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