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«Cosche di ‘ndrangheta nelle Marche,
affiliati in quattro province su cinque»

LA RELAZIONE della Direzione investigativa antimafia: a San Benedetto rilevata la presenza di famiglie del catanzarese, nel Maceratese e nel Fermano di crotonesi, nel Pesarese dell'area reggina. Ad oggi in tutta la regione sono 57 gli immobili e 5 le aziende confiscati alla criminalità organizzata. A far gola il tessuto produttivo, la posizione centrale e i soldi della ricostruzione

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Gli uomini della Dia al lavoro

 

di Giovanni De Franceschi

Le Marche, per la loro posizione geografica, per il tessuto imprenditoriale e produttivo e per la valanga di soldi pubblici destinati alla ricostruzione post-sisma, fanno gola alla criminalità organizzata. Ed è la ‘ndrangheta, considerata una delle più potenti organizzazioni criminali non solo in Italia, che sta provando a mettere radici nel nostro territorio. Diverse le presenze di cosche o di uomini riconducibili ad esse che sono state registrate in quattro province su cinque, compreso il Maceratese.

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La ricostruzione post-sisma

E’ quanto emerge dalla relazione della Direzione investigativa antimafia, relativa al secondo semestre del 2019. Che conferma in parte quanto contenuto nella relazione relativa alla prima parte del 2019. La Dia nella sua analisi parte da un dato. «Nel 2018 sono risultate registrate, presso le Ccia della regione Marche, 170.188 imprese, con una densità di 11,20 ogni 100 abitanti, superiore al dato nazionale, pari a 10,1 imprese ogni 100 abitanti. L’alta densità imprenditoriale è correlata soprattutto alla diffusione di realtà produttive di dimensioni piccole e medie: sussistono produzioni agricole di eccellenza, impianti industriali ed artigianali caratterizzati dalla propensione all’innovazione tecnologica, nonché insediamenti e strutture turistiche sia sul litorale che nell’entroterra. Le caratteristiche del sistema economico-produttivo marchigiano potrebbero richiamare gli interessi della criminalità organizzata, soprattutto in funzione del riciclaggio e del reinvestimento dei capitali illecitamente acquisiti». Non solo, perché «quale regione ubicata in una posizione geografica “centrale” – continua la Dia – le Marche rappresentano anche un importante snodo nell’ambito della rete di collegamenti terresti tra il nord e il sud della Penisola. Inoltre, il porto di Ancona rappresenta, per il Mar Adriatico, il primo scalo per traffico internazionale di veicoli e passeggeri ed uno dei primi per movimentazione delle merci. Ciò ne fa un potenziale crocevia anche di prodotti illeciti, quali le sostanze stupefacenti, le sigarette di contrabbando, le merci oggetto di ricettazione, quelle contraffatte e i rifiuti speciali». Tessuto produttivo ricco e variegato e posizione geografica sono dunque le prime due “qualità” per gli affari della mafie. A cui si aggiunge la terza, la ricostruzione.  «Il territorio marchigiano, colpito dal sisma del 2016 – aggiunge infatti la Dia – continua inoltre ad essere interessato dai lavori di demolizione, rimozione e smaltimento delle macerie, nonché dalle opere di ricostruzione delle strutture gravemente danneggiate. Le consistenti risorse pubbliche investite in questa delicata fase di ricostruzione fanno permanere alta l’attenzione per il contrasto alle infiltrazioni mafiose nel settore degli appalti».

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Il porto di Ancona

Nonostante questo, «la regione – specifica la Dia – non appare al momento essere sede di consolidati sodalizi criminali di tipo mafioso». Ma ci sono diversi segnali che dovrebbero far alzare il livello di guardia. Innanzitutto i dati dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. «All’inizio del 2020, evidenziano che sono in atto le procedure per la gestione di 38 immobili – sottolinea la Dia – mentre altri 19 sono già stati destinati. Sono altresì in atto le procedure per la gestione di 5 aziende operanti nei settori della ristorazione, delle costruzioni e di altri servizi pubblici e sociali (una di queste aziende è già stata destinata). I beni confiscati sono dislocati, secondo un ordine quantitativo decrescente, a Pesaro Urbino, Macerata, Ascoli Piceno e Ancona». Insomma, nella nostra regione e in particolare nel Pesarese e nel Maceratese sono già stati confiscati diversi beni immobili o aziende alla criminalità organizzata. Secondo aspetto, la presenza di cosche calabresi.  «Nel tempo – sottolinea infatti la relazione – sono emerse presenze criminali calabresi in varie province. In particolare, a San Benedetto del Tronto, di alcuni soggetti riconducibili alla ‘ndrangheta del catanzarese; nella provincia di Macerata, così come nell’area di Fermo, di analoghe proiezioni riconducibili a cosche del crotonese; nella provincia di Pesaro Urbino sono stati invece individuati soggetti riconducibili a cosche dell’area reggina». E’ come se le cosche si fossero spartite le province.

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Oltre 5 chili di marijuana sequestrata che era destinata alle piazze del Fermano e del Maceratese

Meno presenti le altre organizzazioni criminali “nostrane”, seppur non completamente assenti. «Nelle Marche, la presenza della camorra risulterebbe marginale e, nel tempo, ha riguardato principalmente il reimpiego di capitali nel tessuto socio-economico locale – sottolinea la Dia -In alcuni casi, pregiudicati di particolare spessore criminale hanno scelto il territorio marchigiano per trascorrervi la latitanza». La nostra regione, quindi, usata come nascondiglio perfetto dai camorristi.  Alcuni esempi: il 16 settembre 2017, a Grottammare, è stato rintracciato dai carabinieri un latitante, esponente del clan napoletano dei Di Lauro. Mentre nel febbraio 2019, a Fano è stato rintracciato e arrestato un affiliato al clan Vollaro, autore, in concorso, di un omicidio commesso nel 2004. Infine, la criminalità pugliese, specie di gruppi foggiani che «attraverso il pendolarismo criminale, si sono resi responsabili di reati predatori, con metodi talvolta molto aggressivi, o di spaccio di stupefacenti». Nel primo caso la Dia ricorda l’operazione “Kuga” conclusa nel 2018 dai carabinieri ad Ascoli Piceno e provincia, Chieti e Foggia, nei confronti di 15 pregiudicati ritenuti responsabili di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati contro il patrimonio. Per quanto riguarda lo spaccio, invece, l’Antimafia segnala l’arresto di uomo di Cerignola, a seguito di condanna definitiva ad anni 5 e mesi 6 di reclusione, ritenuto il referente lombardo di un gruppo criminale contiguo alla batteria Sinesi-Francavilla, che si occupava per conto del sodalizio pugliese dell’approvvigionamento di grossi quantitativi di stupefacente. Che finivano anche nelle nostra regione.

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L’operazione di polizia e carabinieri coordinata dal procuratore Giovanni Giorgio contro la rete di pusher nigeriani

Ed è la propria la droga, il filo conduttore che unisce le varie mafie, italiane e straniere.  «Nella regione – rileva la Dia – si è rilevata anche la presenza di gruppi criminali di matrice etnica che, seppur non caratterizzati da strutture organizzate stabili, tenderebbero progressivamente ad occupare porzioni di territorio. La criminalità di origine straniera, infatti, proprio in ragione dell’assenza di un capillare controllo delle aree da parte di gruppi criminali nazionali, sarebbe riuscita a ritagliarsi spazi nel settore degli stupefacenti, del traffico di esseri umani e dello sfruttamento della prostituzione, riuscendo anche a riciclarne i proventi». In questo caso sono i nigeriani a farla da padrone. Un’operazione su tutte citate dalla Dia:  “The Travellers” conclusa dalla polizia il 2 dicembre 2019. Gli inquirenti sono riusciti a disarticolare un sodalizio – le cui basi operative sono state individuate in diverse città, tra le quali Ascoli, Fermo, Macerata e Teramo – composto da 9 cittadini nigeriani (5 uomini e 4 donne), dediti alla tratta di esseri umani, allo sfruttamento sessuale di connazionali, al riciclaggio ed all’autoriciclaggio. Le ingenti somme di denaro, venivano trasferite in Nigeria per via aerea, con dei “muli” che venivano appositamente pagati, ovvero attraverso transazioni di denaro effettuate con il metodo dell’“hawala” (Sistema di movimentazione finanziaria attraverso “rimesse” di denaro e compensazioni tra “agenzie” basate sulla fiducia degli intermediari e su schemi informali), al fine di evitare ogni tipo di tracciabilità. L’organizzazione avrebbe trasferito in Nigeria oltre 7 milioni di euro. «I secret cults nigeriani (i principali sono: The supreme eiye confraternity, i Black axe, i Maphite e i Vikings, ndr) – specifica la Dia –  sono strutture criminali basate su appartenenza etnica, organizzazione gerarchica, struttura militare, riti di iniziazione e codici comportamentali». E «sono le uniche, insieme alla cinesi, ad avere i caratteri tipici della mafiosità per sentenza». Per quanto riguarda il Maceratese, infine, va citata l’indagine condotta dai carabinieri e dalla polizia che ha portato a 27 misure cautelari soprattutto verso nigeriani. Ricostruito un giro di spaccio di oltre 4mila cessioni di eroina in provincia. Tra gli indagati compaiono Innocent Oseghale (già condannato all’ergastolo in primo grado per l’omicidio di Pamela Mastropietro), Lucky Awelima e Desmond Lucky (gli altri due nigeriani prima accusati e poi prosciolti per l’omicidio della 18enne romana). Due le reti di spacciatori, al cui vertice per gli inquirenti c’erano il 19enne Happiness Uwagbale, nigeriano, catturato dai carabinieri a Ferrara, e il 35enne Osas Nelson Adoghe, arrestato a Macerata.

 

Dossier Dia sulle Mafie: «Presenze di affiliati alla ‘ndrangheta Esposto il settore appalti per il sisma»

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