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Da Torrette agli ospedali
di Emergency,
Roberto racconta il suo Afghanistan

ANCONA – L'infermiere anconetano Roberto Maccaroni è tornato a settembre dall'ultima missione come volontario nell'Helmand. “E' una seconda casa per me, ma la guerra è peggiorata e nessuno ne parla. Devi partire con lo zaino pieno di umanità e di competenze da trasmettere sul posto. Non si parte se non si ha nulla da dire, non è un viaggio per fare un'esperienza personale”

Roberto Maccaroni al lavoro in uno dei presidi ospedalieri di Emergency

 

Il rischio maggiore secondo Roberto Maccaroni è quello di abituarsi alla guerra, come se fosse la normalità. Bombardamenti e raid aerei di notte, sparatorie e attentati di giorno. E’ la quotidianità di Lashkar Gah, nel sud dell’Afghanistan, la provincia del paese dove il conflitto non è mai finito. “Abituarsi alla guerra è un rischio, perché significa aver perso l’umanità. Io non voglio perderla e non puoi perderla se fai l’infermiere”. Roberto Maccaroni, anconetano di 40 anni, infermiere dell’Azienda Ospedali Riuniti di Torrette ormai è un veterano delle missioni umanitarie di Emergency, la ong di cui fa parte dal 2010 e per cui ha prestato servizio negli scenari più difficili come volontario e formatore. Una passione, quella per il soccorso, nata da giovanissimo, già a 16 anni come volontario della Croce Gialla di Ancona, di cui ancora oggi fa parte come istruttore. “Quella passione sono riuscito a farla diventare un mestiere, diventando infermiere” racconta Roberto dalla sede di via Ragusa dell’associazione. Poi il primo viaggio all’estero per prestare soccorso in aree di crisi, nel 2005, con la protezione civile regionale per il terremoto in Pakistan. Da qui non si è più fermato: Sierra Leone nel 2010, a Misurata in Libia durante l’assedio di Gheddafi, poi nella Repubblica Centrafricana e infine le tre missioni in Afghanistan, nella città di Lashkar Gah, nella provincia dell’Helmand. Quella che per Roberto è diventata “la mia seconda casa”.

Roberto Maccaroni con i volontari della Croce Gialla di Ancona per raccontare la sua testimonianza da volontario di Emergency

Una casa che ogni volta è “bellissimo ritrovare”, ma anche terribile da lasciare. “Per il senso di colpa” spiega Roberto. “Perché prima o poi io riparto, me ne vengo in questo paradiso che è l’Italia, ma i colleghi e gli amici del posto li lascio all’inferno”. E parlare di inferno a Lashkar-gar non è una frase fatta, un luogo comune. Roberto mostra solo alcuni scatti e fotografie delle ferite che quotidianamente devono curare nell’ospedale di Emergency per rendere un’idea di cosa significhi. Ferite da arma da fuoco, mine, lesioni da esplosivi artigianali, che nelle migliori delle ipotesi lasciano amputazioni e disabilità per il resto della vita. “Il 90% dei nostri pazienti sono civili, soprattutto bambini e donne” continua Roberto. “Non se ne parla quasi più, ogni tanto fa notizia un attentato a Kabul, ma nell’Helmand si combatte ogni giorno e dalla prima volta che ci sono andato la situazione è peggiorata: mi sembra abbiano imparato a fare la guerra” sottolinea Roberto. Le ferite sono sempre più gravi, i colpi dei soldati ragazzino, strappati alla miseria per essere arruolati in una delle opposte fazioni, più precisi, gli ordigni fabbricati artigianalmente ancora più spietati e letali. “Le mine convenzionali, tante prodotte in Italia, sono studiate da ingegneri per ferire in maniera terribile, mutilare senza uccidere e sono perfette in questo. Gli ordigni IED sono fatti con qualsiasi cosa per causare più danni possibili. Una volta abbiamo trovato addirittura un anello usato in una bomba”. L’ospedale di Emergency è sempre pieno, i volontari hanno dovuto costruire due nuovi reparti per fare spazio ai degenti e un bunker all’ingresso, perché ormai gli scontri sono arrivati alle porte del presidio della Ong.

Maccaroni impegnato in una esercitazione in Afghanistan

Diventa così la prassi il piano di emergenza per le cosiddette “mass casualties”, gli interventi quando arrivano a decine e decine di pazienti in seguito ad un attentato o uno scontro armato. Quaranta, ottanta feriti alla volta. Da giugno a settembre, questa procedura si è attivata quattro volte. “Anche Torrette ha un piano di emergenza: l’ultima volta è scattato per il terremoto di Arquata del 2016. Quella volta sono arrivati dieci codici rosso, quando normalmente in una giornata di agosto ne arrivano 9” commenta Roberto per far capire cosa significa una emergenza in Afghanistan. La parte più difficile per i volontari? “La vita da clausura: stai 14-15 ore al giorno in ospedale e una volta uscito da lì sei chiuso in casa, non puoi farlo se non ami il tuo lavoro”. L’ultimo turno a Lashkar Gah, da giugno a settembre, Roberto l’ha concluso questa estate. Quando pensa di ripartire? Non subito. Il perché Maccaroni lo spiega bene: non è un viaggio per fare un’esperienza personale. “Non puoi partire se non hai rifornito lo zaino emotivamente e professionalmente – risponde Roberto -. I periodi in Italia mi servono certo per ricaricarmi, per portare avanti la mia vita privata, ma anche per aggiornarmi professionalmente e acquisire nuove abilità, da insegnare e trasmettere quando sarò all’estero. Là sei uno strumento, servi per raggiungere uno risultato, non si parte per fare un’esperienza personale. Non si va se non se non si ha nulla da dire, nulla nello zaino da svuotare e lasciare”.

(E. Ga.)

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