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Dalla sinistra progressista di D’Ambrosio
passando per il “garante” Spacca
fino alla “rottura industriale” di Ceriscioli

STORIA del centrosinistra marchigiano dal 1995 a oggi con gli imprenditori che guardano dall'altra parte. Le occasioni perse: cinque anni fa con Pietro Marcolini e oggi con Sauro Longhi. A Mangialardi non bastano i sindaci

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di Fabrizio Cambriani 

La seconda repubblica nasce nella nostra regione e non senza suspence, il 23 aprile 1995. La sera prima un eccitatissimo Emilio Fede – sicuro dei suoi sondaggi – piazza, tronfio, la bandierina azzurra sulle Marche, ignaro che nel segreto dell’urna, Vito D’Ambrosio (primo presidente eletto direttamente) ha già in tasca più del 51% di voti. Stefano Bastianoni, il candidato berlusconiano, non arriverà nemmeno al 39%. È il trionfo di un’alleanza lunga di sinistra-sinistra. La catarsi che chiude per sempre i conti con il CAF che vedeva, proprio in Forlani, il protagonista indiscusso di tutte le scelte della politica marchigiana. Non vennero abbattute statue, né la basilica di Loreto fu trasformata in casa del popolo come qualche beninformato, timorato di Dio, lasciava trapelare in campagna elettorale. Il primo governo Berlusconi si era già dimesso a dicembre, sfiduciato dagli alleati: Bossi e Buttiglione. Lamberto Dini, a Palazzo Chigi, andava avanti sostenuto da una maggioranza composita. Narrasi come il regista occulto di questa – diciamo torbida operazione –fosse il perfido D’Alema. Ivano Fossati e “alzati che si sta alzando la canzone popolare…” sospinsero, nel ’96, il pullman dell’Ulivo. Il proverbiale culo di Prodi fece il resto, riuscendo – circostanza singolarissima – a fargli vincere le elezioni con meno voti degli avversari.

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Vito D’Ambrosio

Nel ’97 D’Ambrosio, benché potesse contare su di una maggioranza granitica (26 contro 14), fece entrare in giunta i Popolari, che con un 6.4% avevano eletto due consiglieri. Nasceva il centrosinistra (non si sa se col trattino o senza: l’ardua sentenza a voi, posteri che non siete altro…) e Gian Mario Spacca si accomodava all’assessorato alle attività produttive. Il capitalismo gentile (copyright di Giorgio Fuà) aveva trovato finalmente il suo interlocutore a palazzo Raffaello. Uno che dava dal tu ai Merloni (ma è solo una leggenda: in realtà all’Ingegnere ha sempre dato del lei) e si faceva garante di una pax tutta marchigiana con l’intero mondo produttivo locale. Detto molto in prosa, significava che Merlonia (altra indicazione delle Marche che non troverete in nessuna mappa, né carta geografica) non aveva assolutamente bisogno del demiurgo lombardo Berlusconi. Prima digressione personale: con Spacca ho fatto parecchie campagne elettorali. Per le europee del ‘99 ci trovammo perfino, di notte e per caso, ad affiggere – con tanto di secchio di colla e spazzolone – i suoi manifesti nell’entroterra maceratese. E più avanti negli anni, in occasione di sue cene elettorali, trovavo spesso, tra i commensali, imprenditori di sicura fede liberale. Che sarebbe un modo garbato per non dire proprio fascisti. Quando ironicamente facevo notare loro il sostegno ai tanto vituperati avversari comunisti, tutti – nessuno escluso – mi rispondevano: “Eh, ma c’è Gian Mario…” Gian Mario era dunque il passaporto che faceva travasare voti da destra a sinistra. La bacchetta magica per aggregare consensi. Il biglietto da visita pregiato, che la politica poteva esibire nel salotto buono della piccola, ma diffusa borghesia regionale. Il catalizzatore che smorzava e impediva pericolosi salti nel vuoto, nel circo Barnum perennemente in subbuglio della politica. Ma soprattutto, il commesso viaggiatore che girava il mondo, con dentro la borsa, il catalogo delle tante produzioni interne. Infine, lo studioso e il cultore dei distretti industriali che, un tizio dall’oltreoceano, prese come modello da imitare, addirittura per gli Stati Uniti d’America. Quel tizio, lo riporto per dovere di cronaca, si chiamava Bill Clinton.

Nel 2000 D’Ambrosio si riconfermò con un’alleanza a sette: da Rifondazione comunista all’Udeur di Mastella. Non benissimo – il centrosinistra nazionale era entrato in profonda crisi per via del trattino – ma segnò cinque punti di distacco al centrodestra. Parola d’ordine: continuità. Spacca vicepresidente della giunta, ma sempre col catalogo in mano e il biglietto aereo pronto, alla volta di nuove frontiere. Il mercato locale le individuava e lui partiva. E tornava a casa con dei bei contratti. I piccoli industriali erano soddisfatti, lo votavano e lo facevano votare. Facile no? Nel 2005, ancora alleanza a sette e hasta la victoria. Sul tavolo nazionale di Ds e Margherita la sua candidatura non fu nemmeno messa in discussione: Spacca, e ho detto tutto. E nel tutto era compreso il mondo di Merloni & C. Infatti, da candidato presidente, fece il botto. Quasi il 58% che travolse – come un’onda di marea – il povero e incolpevole Francesco Massi.

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Gian Mario Spacca

Nel 2008 la terribile crisi del debito sovrano. Lo sferragliare delle presse rallentò. I muletti smisero di caricare a tutta birra. Si affievolirono i bip dei computer. Molte insegne al neon si spensero anche lungo il viale di questo capitalismo gentile. Nacque il Partito Democratico che, pure qui nelle Marche, segnò la cesura definitiva con la sinistra. Nel 2010 Spacca, sempre con un’alleanza a sette, si riconfermò col 53% per affrontare, non senza stanchezza, il suo quinto mandato in regione. Mancava sì all’appello la sinistra, ma Italia dei Valori e Udc, si rivelarono preziosi alleati, assieme a qualche altro cespuglio. Primi vagiti di un esperimento, successivamente e universalmente denominato “modello Marche”. Con l’Udc che divorziava da Berlusconi – in altre lussuriose faccende affaccendato – e passava dall’altra parte della barricata. Un modello che solo pochi mesi più tardi verrà solennemente battezzato, da Pierferdinando Casini (sempre sia lodato) e da Massimo D’Alema (perfido nei secoli) – in un trionfo di tartine e prosecchi – dentro una nota pasticceria di Civitanova – che quando si scrivono i libri di storia lo si fa nelle Marche – così da estenderlo in tutto il territorio nazionale. Gian Mario Spacca ne era stato il primo garante.

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Palmiro Ucchielli e Francesco Comi

Ma il segretario regionale del Pd, Palmiro Ucchielli, a differenza dei suoi predecessori, richiedeva, anzi esigeva proprio, il diritto di impartire la sua linea al governo regionale. Figuriamoci se Gian Mario – l’economista, allievo di Aldo Moro – poteva mai pensare di prendere ordini e direttive dal sindaco di Colbordolo. Furono cinque anni di scontri sottotraccia che produssero poco e niente. Ma i viaggi di Spacca continuarono. Dall’estremo oriente fino agli emirati arabi. Mandarini e sceicchi. Tuttavia, la divaricazione tra il partito e la giunta regionale aumentava. Iniziava l’onda lunga renziana – così almeno ce la raccontavano i narratori di regime – e qui nelle Marche, ci sarebbe voluto un segretario del Pd capace di ricucire. Ma, ahi loro, venne scelto Francesco Comi, che ha la stessa attitudine alla mediazione, come io ho quella di ballare il tango sulle punte dei piedi. Tra l’altro, Comi venne eletto, praticamente senza nessun avversario. Lo sfidante Ceriscioli fu escluso per un odioso formalismo. Le primarie furono un flop di partecipazione, ma anche un vulnus a cui, da Roma, bisognava porre subito rimedio. Spacca – sempre più ostinatamente sordo ai desiderata di corso Stamira – era diventato inviso a tutto il partito. Che – fedele al primo comandamento del bulletto di Rignano – si apprestava a rottamarlo. Seconda digressione personale: un giorno e per puro caso, mi trovai in treno, a viaggiare per Milano con Lorenzo Guerini, fidatissimo inviato di Renzi che se ne tornava a casa dalla direzione regionale del Pd, svoltasi la sera prima.  Ne discutemmo per un po’, quindi gli feci presente che rompere con Spacca significava rompere con l’intero mondo produttivo marchigiano. E che questo non era decisamente consigliabile, nonostante la strabordante forza del Pd. Ma intuii pure – non senza amarezza – che a Renzi non interessavano tanto gli equilibri del governo regionale, quanto e molto di più, sanare subito la frattura interna al partito.

Furono dunque le primarie tra Ceriscioli (il mancato segretario regionale del partito) e Pietro Marcolini, assessore di Spacca. Al segnale convenuto, tutti i capataz del Pd si schierarono, come un sol uomo, con Ceriscioli: il futuro e taumaturgico “sindaco delle Marche”. Per capirci meglio: quelli che oggi hanno posto il veto – definitivo e inappellabile – a Ceriscioli, cinque anni fa stavano tutti, con sommo e cortese riguardo, dalla sua parte. E giuravano e spergiuravano che con lui – e mica con Marcolini – si sarebbe, nientemeno, riscritta la storia. E che storia! Addirittura, la sindaca di Ancona, Valeria Mancinelli, con massimo sprezzo del ridicolo, arrivò a dichiarare che dietro Marcolini stava tutto il vecchio apparato di partito. Pensai subito a Suslov, Breznev e Malenkov. Poi mi premurai di andare a cercare i nomi e realizzai come i suoi sostenitori fossero, in realtà, i deputati Manzi e Carrescia. Non so Carrescia, ma Irene Manzi, non l’avevo mai vista, prima che diventasse deputata, in una sede di partito. Spiriti mali, li avrebbe definiti Dante. Ma lasciamo stare e, saltato a piedi pari l’ormai desueto esercizio di autocritica maoista, andiamo avanti.

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Luca Ceriscioli, Maurizio Mangialardi e Valeria Mancinelli

Le primarie – ca va sans dire – le vinse Ceriscioli. Il quale si affermò pure alle regionali, stavolta con un’alleanza cortissima: Pd, Uniti nelle Marche e Udc. Ma il Pd, rispetto alle europee dell’anno precedente, perdette dieci punti secchi. Dal 45% al 35%. Un tonfo che sott’acqua ti frantumerebbe i timpani. Un terribile campanone di allarme che avrebbe dovuto consigliare attenzione e prudenza. Soprattutto se uno sa di essere scoperto sul versante del mondo imprenditoriale. L’unico, esile filo a cui aggrapparsi, per tentare di tessere una tela, era proprio Marcolini in giunta. Ma niente, non ci fu verso. Nel delirio orgiastico della rottamazione tutto doveva essere scaraventato via. E soprattutto – secondo comandamento renziano – non si dovevano fare prigionieri. Il dialogo col mondo imprenditoriale, a parte quello pesarese, vieppiù interessatissimo alla realizzazione di ospedali – ma qui entreremmo in un’altra delle malebolge dantesche che per carità di patria è meglio tacere – in cinque anni non c’è mai stato. Viceversa, è come se la giunta regionale avesse voluto manifestare con ostentazione tutto il suo disprezzo per le istanze del mondo economico e produttivo. Mai visto nessuno, tra loro, alle tante iniziative della Fondazione Merloni: manco a quelle di Portonovo con Prodi e Letta. A cui hanno sempre presenziato, imbarazzatissimi – proprio perché orfani dei loro assessori – Mastrovincenzo e Giancarli. E tuttavia, l’incessante presenza di Ceriscioli o dei suoi collaboratori è stata sempre puntualmente segnalata, sui social, a ogni sagra della polenta o del fagiolo ricurvo. Il punto è che il governo regionale, in questi cinque anni, ha deliberatamente scelto di rompere con gli imprenditori. Evidentemente perché convinto di essere autosufficiente. L’ultima occasione, in ordine di tempo, è stata la realizzazione del centro Covid di Civitanova, cui ho già narrato altrove. In questa cornice, il partito – che avrebbe dovuto supplire ai vuoti creati dalla stessa giunta – non ha mai avuto uomini nemmeno lontanamente capaci di creare un filo di collegamento con l’imprenditoria locale. Chiedersi il perché sarebbe disputa interessante, ma da affidare a più sagaci e sottili chiosatori che non alla mia miserrima persona.

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Sauro Longhi

Preso atto di questa sciagurata e inedita situazione – e qui siamo arrivati ai giorni nostri – ai democrat marchigiani, si è offerta un’opportunità inaudita: la disponibilità a candidarsi dell’ex rettore della Politecnica, Sauro Longhi. Chi, meglio di lui avrebbe potuto supplire a questo grave deficit? Chi meglio di lui avrebbe potuto aggregare una più ampia e competitiva alleanza? Anche perché, nel frattempo, uno degli alleati, l’Udc, era ritornato nel centrodestra. Praticamente, si sono trovati in mano il biglietto vincente della lotteria. Che, se non altro, avrebbe garantito loro di continuare a governare la regione. E, accordato il tempo necessario per poter rigenerare, in quest’ottica, l’intero partito. Niente. Sono riusciti a sprecare malamente pure questo vantaggio cadutogli dal cielo. Non una pia sciocchezza, ma un sesquipedale errore politico. Sicuramente molto grave. E, temo, irreparabile. In verità, il Pd si è rivelato per quello che realmente è sempre stato: un grande vuoto con il partito attorno.

Oggidì, sono gli imprenditori – singolarmente o attraverso le loro associazioni – che guardano dall’altra parte. A destra. Ma mica alla destra liberale e liberista che fu di Berlusconi (che nelle Marche non è mai riuscita a toccare palla). Proprio e segnatamente alla destra radicale e antieuropea di Salvini e Meloni. Sulla stampa è tutto un intrecciarsi di asserzioni di gradimento per questo o quel candidato. Un rincorrersi in sperticate dichiarazioni d’affetto, anche stucchevolmente adolescenziali, visti i figuri. Una corrispondenza d’amorosi sensi che sposa sì le ragioni del buon cuore. Ma lascia aperta – mi si perdoni l’ardire del sospetto – anche quella dei cattivi pensieri. Trattasi ovviamente, di tutti candidati alternativi a Mangialardi. Un deciso cambio di campo, invero non del tutto inaspettato, almeno per chi avesse un po’ di fiuto politico. Che segnala, verosimilmente e per sempre, il fine corsa dell’esperienza di centrosinistra. Il portato di una perniciosa mancanza di sensibilità e attenzione che, contrariamente all’attuale classe dirigente, rifuggì perfino all’ottusa radicalità di Rifondazione Comunista di metà anni Novanta.

Ma il buon Mangialardi, in questo deserto – che lui stesso e pro quota ha ben contribuito a realizzare – si bea del centinaio di sindaci che lo hanno sostenuto nella candidatura. Del tutto ignaro che, alle europee di appena un anno fa, tutti i comuni – sindaci volenti o dolenti – si sono colorati di quel verde brillante, proprio della compagine leghista. E che, l’attuale diminuzione del consenso salviniano, è compensato dalla crescita esponenziale di Fratelli d’Italia. Mi dicono che, per vincere, esso Mangialardi, abbia ingaggiato un esperto di comunicazione di Bonaccini. Terza e ultima digressione personale: da ragazzino – avrò avuto tredici, quattordici anni – praticavo il ciclismo ed ero tifoso di Baronchelli. Dai miei, mi feci comprare la sua stessa bicicletta che all’epoca costò loro un’ira di dio. Ero convinto che con quella bicicletta lì, sarei stato capace di affrontare salite proibitive senza nemmeno poggiare le mani sul manubrio. Purtroppo, dovetti presto rassegnarmi all’evidentissima circostanza che, per essere come Baronchelli, non ci voleva la sua bici, ma ci volevano – ahimè – le sue gambe. Finì che mi dedicai ad altri diletti.

 

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