Andrea Olivieri (al centro) con i suoi maestri di kickboxing
di Marco Pagliariccio
Andare giù, affondare sempre di più, toccare il fondo, iniziare anche a scavare. E poi risalire, fino a toccare il cielo con un dito. Una storia di difficoltà, di riscatto, di amicizie che si intrecciano quella di Andrea Olivieri.
«Lo sport mi ha letteralmente salvato la vita», dice. Matelicese di nascita, seppur ormai da diversi anni trapiantato a Pesaro, 40 anni di età, Olivieri si avvicina giovanissimo al basket. In questo sport, grazie a un allenatore molto noto nelle Marche come Fabrizio Formentini, trova la via d’uscita da un’adolescenza segnata dal bullismo: due metri in altezza ma anche 160 kg sulla bilancia, lavora duro, durissimo e pian piano trova la sua strada. Arriva alle soglie della prima squadra in Serie A con la canotta del Fabriano Basket, poi tanta Serie C tra Marche e Umbria, ma la passione pian piano scema fino a spingerlo a lasciare la palla a spicchi per fare tutt’altro: diventare istruttore di functional training. «”Prima di diventare un giocatore di basket, devi diventare un atleta” mi ripeteva ogni volta Fabrizio – ricorda Andrea – l’ho preso in parola da quando avevo 12 anni, non ho mai più smesso di allenarmi per migliorare il mio fisico. Se non sono caduto in depressione, lo devo sicuramente a Fabrizio. Quindi, ho pensato, perché non diventare io stesso un istruttore di ciò che mi aveva salvato la vita, ovvero la preparazione fisica? Magari prima o poi avrei anch’io potuto salvare qualcuno. Dentro di me era quello che speravo. Andava tutto bene. Finché non è arrivato il dolore a rovinare tutto».
Siamo nel 2014, Olivieri ha lasciato il basket già da qualche anno. Giorno dopo giorno la mano sinistra inizia a fare sempre più male. Gli esami parlano chiaro: c’è una calcificazione derivata da una rottura dello scafoide che si è saldata male. Olivieri cade dal pero. «Con la memoria sono risalito al 2007, quando, dopo una partita di basket di Serie C Fabriano-Cagli, sono caduto male dopo un salto, appoggiando a terra la mano. Non avrei mai pensato a una frattura, ma quella sera dopo la partita così, tanto per precauzione, mi ero fatto fare una lastra all’ospedale di Camerino. Il referto diceva che tutto era a posto, ma in quell’occasione mi avevano fatto una sola proiezione. Per individuare danni allo scafoide, invece, di proiezioni ne occorrono due. Dopo quell’esame non me n’ero più preoccupato e il giorno dopo ero già in palestra senza sapere nulla della frattura che invece, ho scoperto anni dopo, c’era eccome».
La mano di Andrea dopo la prima operazione
C’è poco da fare: bisogna intervenire chirurgicamente. «Io e mia madre, facendo ricerche su internet, abbiamo trovato questo medico, specialista nei polsi, che veniva dalla scuola di Modena ma faceva visite anche a Pollenza – prosegue Olivieri – dopo avermi visitato il dottore non aveva dubbi: sarei tornato presto a fare sport, nel giro di un mese. Così mi operano il 9 dicembre 2014 in una clinica privata di Rimini e mi dicono che l’intervento è perfettamente riuscito. Ma in realtà non è così».
Il calvario inizia da qui. Nei primi giorni i dolori sono lancinanti e la febbre molto alta, dopo quasi un mese il polso ancora non si muove se non con grande dolore. «Più che altro si vedeva a occhio nudo che la mano andava verso l’interno. Era storta, era attaccata in maniera sbagliata». Fisioterapia, infiltrazioni di acido ialuronico, visite da altri medici: niente di niente, il dolore resta e la mano non si sblocca. «Seguendo le indicazioni di un fisioterapista abruzzese che avevo consultato, ho iniziato ad assumere degli antidolorifici in maniera sempre più massiccia. Non ti accorgi subito dell’assuefazione che danno, non è un processo così immediato. Te ne accorgi quando rimani senza e non dormi più perché ne hai bisogno. Nel 2016, in America, l’ossicodone ha causato più morti degli incidenti stradali. Pazzesco a pensarci, ma io non lo sapevo di certo, allora». Inizia l’incubo per Olivieri. Un incubo fatto di alti e bassi governati solo ed esclusivamente dai ritmi delle pasticche che butta giù in quantità industriale. «Esisteva un Andrea con l’ossicodone in corpo, quello vivace e brillante e poi esisteva un altro Andrea senza più quest’effetto: una sorta di pallone bucato. A un certo punto ero talmente strapieno e assuefatto che appena sveglio, solo per vivere una vita normale e andare a lavorare, dovevo prendere sette pastiglie da 40 e masticarle a stomaco vuoto affinché entrassero subito in circolo».
Intanto però lui cerca di trovare una strada per risolvere il problema alla mano, che continua a tormentarlo e a impedirgli di allenarsi come ha sempre fatto. «Un medico romagnolo mi dice ciò che ormai mi sembrava chiaro: chi mi aveva operato aveva fatto un disastro, era necessario riaprire la mano e provare a sistemare il danno – prosegue – ma il dottore mi dice chiaramente una cosa: la mano non sarebbe più tornata come prima, avrebbe avuto grosse limitazioni di mobilità. Alla luce di ciò, e del fatto che il medico che mi aveva operato non rispondeva più alle mie chiamate, ho sporto denuncia. Il problema era che il giudice aveva nominato un consulente tecnico d’ufficio che mi avrebbe visitato solo 11 mesi dopo, per cui nel frattempo non potevo rioperarmi. La notizia mi fece crollare il mondo addosso».
Andrea in campo con la maglia dei Dolphins Ancona di football americano
Devastato dalla situazione, Olivieri si spinge sempre più a fondo. Inizia ad acquistare antidolorifici anche sottobanco, ne ingurgita dosi 10 volte maggiori a quelle che dovrebbe assumere. Intanto il tempo passa e il 9 dicembre 2015, ad un anno esatto dalla prima operazione, torna sotto i ferri. Due operazioni nel giro di un paio di mesi gli rimettono la mano in sesto. Ma il problema, ora, è l’essere di fatto diventato un tossicodipendente. Prova a ripulirsi una prima volta, nel 2016, in una clinica di Ancona. Ma non funziona. Con i miglioramenti della mano, torna a buttarsi a capofitto nello sport: prima il tiro al poligono, poi il pugilato, quindi il football americano. Gioca persino in Serie A con i Dolphins Ancona per un periodo. «La mano mi faceva ancora male, certo, ma Pippi Moscatelli, allenatore che fa parte della Hall of Fame italiana, mi aveva stimolato alla grande. Davo il massimo, perché avevo bisogno di tirare fuori l’odio che avevo dentro. Per un po’ funzionò, poi però sono andato via di testa e ho lasciato la squadra a 2-3 partite dalla fine della stagione. Dopo aver lasciato i Dolphins avevo fatto un’altra risonanza magnetica e avevo scoperto che due delle tre viti all’interno del polso si erano spezzate e anche le ossa, le poche rimaste nel polso, avevano subito danni. Ero a pezzi».
Siamo nel 2019 e la vita di Olivieri è appesa a un filo, con la mano frantumata e la dipendenza dagli antidolorifici che lo divora. Un giorno, però, arriva un raggio di luce. Nel suo ufficio all’Enel, dove lavora da anni, arriva un ortopedico. «Dopo avergli parlato del mio calvario ci eravamo accordati: io gli sarei andato incontro risolvendogli alcune grane con delle bollette, lui mi avrebbe fatto una visita in amicizia. E dopo avermi visitato, mi aveva detto: “La situazione è un disastro, io non ci metterei mano, l’unico a cui puoi far vedere una cosa del genere è un professore che opera a Modena”. Con una nuova speranza gli ho scritto su Messenger. E lui mi rispose immediatamente».
Andrea nei giorni che precedono l’ingresso al Sert di Pesaro
La risposta prospetta però solo due vie: operare per lasciare la mano “lenta”, ma a quel punto la sua vita sarebbe stata solo ufficio e poco più, non avrebbe più nemmeno potuto tirar su una busta della spesa, oppure all’inverso bloccare il polso guadagnando forza nella presa, ma perdendo completamente la mobilità. «Gli ho chiesto se con il polso bloccato avrei potuto combattere: una volta rassicurato su questo, a patto di aspettare 6-7 mesi che si fosse saldata la situazione, non ho avuto dubbi». Covid e lockdown non aiutano, i tempi delle operazioni si dilatano e quel flebile raggio di luce per Olivieri torna lontano, lontanissimo. «Continuavo a imbottirmi di farmaci e non potevo allenarmi: a novembre 2020 sono arrivato a pesare 145 chili, ero un bisonte. La mia ragazza di allora, che era psicologa e psicoterapeuta, riuscì alla fine a convincermi a rivolgermi al Sert di Pesaro. Lì conobbi delle persone stupende che, ascoltandomi, dandomi i giusti consigli e con l’aiuto del metadone, pian piano mi hanno indicato la via».
Andrea si motiva anche scoprendo la storia di Tyson Fury, pugile risorto dalla dipendenza dalla cocaina fino a tornare campione del mondo, e stavolta segue per davvero la strada verso la redenzione. Intanto il tempo passa e, a luglio 2021, finalmente, può tornare sotto i ferri. «Dopo l’operazione dovevo solo aspettare. Finalmente avevo eliminato tutti i farmaci, ero davvero pulito. Dopo sei mesi, allora, riprendo con la boxe. Avevo fame di ring, volevo combattere, ma col sinistro non riuscivo a colpire bene. Mi buttai a capofitto sul lavoro per non pensare, poi quando la ragazza con cui nel frattempo mi ero messo scappò di casa, lasciandomi dall’oggi al domani, ebbi paura di crollare definitivamente». L’ultimo passo verso la luce. «Non ho mollato e sono entrato nel 2023 con uno spirito tutto diverso».
Andrea con il campione di basket olandese Hanno Schoenmakers
Olivieri conosce Michele, che lo riporta al kickboxing, uno sport che aveva praticato anni prima, tra il 201o e il 2012, subito dopo aver chiuso col basket, disputando anche un paio di incontri. Inizia ad allenarsi, la mano risponde bene. Un sogno inizia a materializzarsi: salire su un ring per un combattimento vero e proprio, che sarebbe il coronamento di questa lunga rincorsa e che diventa il suo chiodo fisso in testa. Sembra qualcosa di irrealizzabile per un omone che ha 40 anni e ha vissuto sette vite in una. Ma il destino e quel basket che aveva lasciato tanto tempo prima tornano a tendergli una mano. Su Instagram, Olivieri riallaccia il rapporto con Hanno Schoenmakers, ex cestista olandese che era stato protagonista di una promozione in Serie A con la canotta di Fabriano, proprio nella stagione in cui l’allora ragazzino matelicese si allenava saltuariamente con i cartai. «Gli ho raccontato la mia storia e gli ho parlato del sogno di potermi allenare con Mekki Ben Azzouz, il Carlo Ancelotti del K1, che in Olanda, vicino Eindhoven, ha una palestra dove allena i più grandi atleti del mondo. Raggiunsi a casa sua Hanno, che nel frattempo mi aveva preparato una lettera in olandese nel quale si spiegava la mia storia e che avrei presentato alla palestra. Fu lui ad accompagnarmi fino ad Eindhoven. Con la lettera in mano, mi presentai a quel santone del kickboxing e dal giorno dopo iniziai ad allenarmi per 10 giorni con i più grandi atleti del mondo di questo sport».
Andrea con Enrico Pellegrino, argento europeo di muay thai
Olivieri è tornato in pista ormai: il bullismo, la mano devastata, le delusioni, gli amori finiti male, tutto è alle spalle. Manca solo uno step per liberarsi una volta per tutte dei fantasmi del passato. «Finalmente avevo trovato l’avversario per il mio primo match. Lui era già un semiprofessionista con una quindicina di incontri alle spalle, io un quarantenne che non ne disputava uno da un decennio. Ero pronto, fisicamente e mentalmente». Pugno dopo pugno, calcio dopo calcio. Andrea ha finalmente la sua rivincita. «Tecnicamente l’incontro l’ho perso, ma avevo vinto lo stesso. Avevo vinto contro tutti, contro chi mi aveva rovinato anziché curarmi, contro chi mi aveva lasciato, contro chi non aveva creduto in me».
Come Tyson Fury aveva ispirato lui nel momento più buio della sua vita, ora Olivieri vorrebbe ispirare altre persone travolte da problemi di dipendenza. Così ha deciso di mettere nero su bianco il lungo incubo da cui è uscito in un libro, “L’ultimo passo”, scritto a quattro mani con Jonathan Arpetti e che sarà presentato fra qualche settimana all’Overtime Festival di Macerata. «Non è stato facile, ma alla fine ho vinto. E se potrò aiutare anche solo una persona con la mia storia, sarà davvero servito a qualcosa».
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