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Pd, riuscirà Zingaretti
a neutralizzare le correnti?

IL COMMENTO - Ad Ancona l'intervento del candidato alla segreteria nazionale sembra acquietare gli animi a colpi di dura autocritica e prospettive di rifondazione del partito dalla base. Parole d'ordine: contare, decidere e organizzarsi. «Così siamo diventati inutili alla storia, occorre cambiare modello, quello dei capi ha fallito»

 

di Fabrizio Cambriani

Vincere è il suo destino. Nicola Zingaretti, classe 1965, è un politico controcorrente. Infatti, lui vince anche quando il suo partito perde dovunque. Nel 2008, il neonato PD di Walter Veltroni veniva asfaltato da Berlusconi alle elezioni politiche. L’onda lunga berlusconiana contagiò pure la capitale, tanto che Rutelli venne sonoramente battuto da Alemanno, che saliva trionfante, i gradini del Campidoglio. Sotto la statua di Marco Aurelio, un drappello di militanti di Alleanza Nazionale srotolava uno striscione canzonatorio con su scritto: “Veltroni santo subito!” A rovinargli il filotto, pochi metri più in là, Palazzo Valentini, sede della Provincia di Roma, restava invece – sia pure di un’incollatura – nelle mani del centrosinistra a guida Zingaretti che arginò così la gaia valanga azzurra. Nel 2018, giusto dieci anni dopo, quando il Partito Democratico registrava la sua disfatta su tutta la penisola, Zingaretti batteva gli avversari e veniva confermato governatore del Lazio. Due puntini rossi in un mare dapprima azzurro e oggi gialloverde che resistono all’impetuosità dei venti e che restano agli atti della cronaca politica italiana. Oggi Zingaretti prova a vincere un’altra battaglia. Quella più difficile: la corsa per la segreteria nazionale del Partito Democratico. Uno slalom tra veti e correnti che l’odissea, in confronto, è una passeggiata fuori porta. L’appuntamento è per le diciotto, ma alle 17,15 è già presente e si concede alle domande dei giornalisti. Senza filtri, né codazzi di uffici stampa a cui fare riferimento. Colpisce la sua spontaneità e immediatezza. Non gioca con le parole, non ci gira attorno. L’unica nota stonata è il capannello di politici locali che sgomitano tra di loro e fisicamente lo stringono fino a comprimerlo. Il tutto per apparire, per un posto in prima fila, in un filmato o un’immagine. Sembrano, tutti assieme, quel molestatore che durante le dirette tv si piazza davanti alla telecamera per disturbare la trasmissione. Invece sono governanti regionali con il loro staff. Visto da fuori è uno spettacolo penoso. Anche il format è datato: cinque testimonianze dei mondi produttivi, sociali e amministrativi che precedono la sua relazione. Tempi troppo lunghi e, nella sala, la stessa attenzione che i congressi del vecchio PCI riservavano all’intervento del “compagno delegato” del consiglio di fabbrica di Vattelapesca. Così come, nell’epoca dei social, un evento del genere, avrebbe meritato una diretta streaming. Quantomeno su Facebook. In platea si percepisce tensione: il nervosismo per le vicende del congresso regionale, ha lasciato profonde cicatrici. Le facce dei protagonisti sono scure e pensose. A mano a mano l’auditorium della fiera della pesca di Ancona si è riempito e ci sono solo posti in piedi.Zingaretti sale sul palco, Oxford azzurra e giacca blu. Parte dritto, con un tono sicuro che manterrà per tutto il tempo. «Il nostro problema oggi è ritrovare una comunità, ascoltare le persone e trovare un ruolo nella società». Ma la parola che usa di più è speranza. «La nostra missione è quella di tornare a dare una speranza agli italiani». Poi una severa autocritica, quando rileva che si è perseguito l’obiettivo della crescita trascurando l’equità sociale. «Qui si è determinata la rottura con il nostro elettorato. La delusione è cresciuta fino a diventare rabbia – quindi l’affondo senza appello – così siamo diventati inutili alla storia». Continua a parlare – tra gli applausi – con un’oratoria asciutta ed essenziale. A differenza del fratello più famoso (il commissario Montalbano) non riesce a gestire la mimica. Talvolta va a sbattere le mani sul leggio che ha davanti. Però va giù duro: «Serve una nuova piattaforma economica e sociale che privilegi le uguaglianze. Una nuova identità fondata sulla ridistribuzione del reddito. Una innovazione, ma che sia giusta e non permetta l’arricchimento di pochi a discapito dei moltissimi nuovi poveri. Rifondare un nuovo europeismo. Oggi l’Europa è diventata l’unione intergovernativa delle destre». L’unica frase a effetto che si concede in più di mezz’ora di discorso è quella in cui dice: «Quando ci incontrano per strada, di noi devono dire: quelli sono coloro che combattono per i nostri diritti». Gli ultimi colpi mortali sono per la classe dirigente del PD, sin dalla sua fondazione e – lo sottolinea a scanso di equivoci – non solo quella degli ultimi quattro anni. «Occorre cambiare modello, quello dei capi ha fallito. Siamo stati subalterni all’idea del capo che decide per tutti». Le parole d’ordine sono: contare, decidere e organizzarsi. Se le parole sono pietre, quelle di Zingaretti, diventano macigni quando afferma che: «bisogna distruggere, annientare tutte le strutture che ci allontanano dalle persone». Infine, una chiosa velenosa: «Non sta scritto da nessuna parte che chi non è del PD debba essere contro il PD. In politica si può anche essere alleati». E, detto da uno che se nel marzo scorso, nel Lazio, non avesse fatto l’accordo con la sinistra di Liberi e Uguali non avrebbe mai vinto, queste parole segnano davvero il discrimine tra la vittoria e la sconfitta. La sala si svuota lentamente, giusto il tempo per qualche selfie di rito. I volti sono più rilassati. Si percepisce la soddisfazione per aver ascoltato parole che da troppo tempo non venivano più pronunciate. Il buio inghiotte i presenti. Fuori si sta bene, ma appena davanti c’è il mare aperto che ti riporta alla forza delle correnti. Una metafora perfetta per lo svolgimento di questo congresso nazionale del Partito Democratico. Riuscirà Zingaretti – il politico che governa come un democristiano e parla come un comunista – ad attraversarle indenne?

La Piazza Grande di Zingaretti ad Ancona: «Dopo cinque anni di sconfitte il Pd deve cambiare»

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