Seguito per mesi, operato e dimesso dopo pochi giorni alla vigilia del Natale scorso, è già tornato al lavoro. All’ospedale di Torrette il primo caso, senza precedenti in letteratura, di un paziente con una rara malattia al fegato che lo aveva messo a rischio vita. L’uomo, un cinquantenne marchigiano, è stato salvato grazie alla collaborazione multidisciplinare di più strutture attive all’interno dell’Azienda Ospedaliero Universitaria delle Marche, fa sapere la stessa Aoum. La gestione del paziente è stata condivisa da un team multidisciplinare: dal personale della Unità Operativa Danno Epatico e Trapianti, diretta dal professor Gianluca Svegliati Baroni, che si è occupato della parte clinica e della Radiologia Interventistica, con a capo il dottor Roberto Candelari, che, assieme alla Clinica di Chirurgia Epatobiliare, Pancreatica e dei Trapianti diretta dal professor Marco Vivarelli, hanno affrontato la parte tecnica del caso.
Il paziente, trapiantato dall’equipe del professor Vivarelli nel 2016 per una rara malattia (sindrome di Budd-Chiari), era vissuto senza particolari problemi fino a qualche mese fa. Col tempo, a causa della nuova chiusura delle vene che portano il sangue fuori dal fegato (la sindrome di Budd-Chiari appunto) si erano formati dei trombi venosi all’interno dell’organo con dilatazione delle vene addominali ed in particolare del duodeno, con formazione di una varice di enormi dimensioni che, in caso di rottura davvero imminente, avrebbe prodotto una emorragia massiva.
«Il fegato del paziente era di nuovo cirrotico e non esistevano troppe alternative, quell’ostacolo andava rimosso e soprattutto era diventata una corsa contro il tempo» spiegano in una nota il professor Svegliati Baroni e il dottor Roberto Candelari, le cui rispettive équipe – hanno collaborato Laura Schiadà, Elisa Malena, Marco Macchini, Mario Torresi – sono state sempre a stretto contatto per tutto il periodo necessario. «Con i colleghi chirurghi abbiamo a lungo discusso, ma un nuovo trapianto non era proponibile, e non avevamo molte alternative con il fegato compromesso e quelle enormi dilatazioni venose, si rischiava o una nuova insufficienza epatica o una emorragia massiva: bucare la vena cava avrebbe provocato conseguenze gravissime. – proseguono – Del resto sottoporlo a un nuovo trapianto o lasciare tutto com’era, quindi con quella varice pronta a esplodere da un momento all’altro non ci dava un quadro di quella varice pronta a esplodere da un momento all’altro non ci dava un quadro di alternative troppo ampio. Avendo creato un rapporto fiduciario col paziente, gli abbiamo presentato lo spettro preciso della situazione, compreso il rischio molto alto dell’intervento che volevamo programmare Noi eravamo convinti di farlo, ma lui andava informato e così è successo alla fine».
La fase preparatoria e di valutazione è stata seguita dai clinici del fegato, poi sono entrati in azione i radiologi interventisti. Multidisciplinarietà e rispetto dei percorsi: da una parte l’elevatissimo spessore tecnico dei professionisti, dall’altra le regole fissate dai Pdta (Percorsi diagnostico terapeutici assistenziali), ossia la strada su cui gli autori di questo intervento straordinario si sono mossi. L’altro concetto sviluppato e di grande valore, è la mininvasività delle procedure.«In poche ore abbiamo risolto un caso privo di aneddotica clinica intervenendo per via percutanea e senza lasciare cicatrici, consentendo al paziente un recupero rapido – conclude il dottor Roberto Candelari – Con le vecchie modalità sarebbero serviti molti più giorni di degenza, così, al contrario, ha potuto festeggiare il Natale in famiglia. La nostra Radiologia Interventistica è l’unica operativa h24 nelle Marche e non solo».
Il 50enne non è stato soltanto salvato da una serie di conseguenze gravissime, a rischio della vita, ma d’ora in avanti la recidiva post-trapiantologica non potrà più ripresentarsi. «Il trapianto del 2016 era riuscito perfettamente, il problema si è formato per una recidiva incontrollabile della malattia _ puntualizza il professor Gianluca Svegliati Baroni . Per evitare che ciò accada di nuovo abbiamo creato nel fegato del paziente una specie di autostrada anatomica per convogliare il sangue ed evitare la formazione di varici. Si tratta di un percorso che non esiste in natura e la straordinarietà del caso sta anche in questo ulteriore aspetto. Sulle malattie del fegato il nostro centro ospedaliero-universitario non ha nulla da invidiare a nessuno a livello nazionale. Attraverso le linee guida tracciate da due Pdta – trapianti e tumori al fegato – abbiamo tutto ciò che serve per i pazienti marchigiani; questo tipo di organizzazione produce anche mobilità attiva da fuori Regione» conclude il comunicato dell’Aoum.
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