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Dentro il Covid center, parla Bertolaso:
«Potrà trasformarsi in centro specialistico
Così si pianifica il futuro» (FOTO)

CIVITANOVA - Viaggio all'interno della struttura ospedaliera, in via di complemento alla Fiera, insieme all'ex capo della Protezione civile e ai vertici dell'Ordine di Malta: «È un tale gioiello e con una tale tecnologia che sarebbe davvero sciocco pensare di smontarlo successivamente. Lombardia e Marche prototipi per gli scenari peggiori»

 

di Andrea Braconi

Metro per metro, pannello per pannello, bullone per bullone. Guido Bertolaso è un fiume in piena, ha voglia di raccontare il grande lavoro fatto dai circa 100 operai che, divisi in tre turni di 8 ore, dal 20 aprile stanno allestendo il Covid Hospital di Civitanova Marche. A loro si aggiungono i 40 volontari dell’Ordine di Malta, un gruppo che comprende sia il corpo militare che quello di soccorso della stessa organizzazione non governativa. Una squadra mista mista di professionisti e volontari, nella quale sono presenti anche ingegneri, architetti, avvocati e contabili: un esempio di management piuttosto elevato, come ribadiscono i referenti dello stesso Ordine.

DENTRO IL COVID HOSPITAL – All’esterno Bertolaso mostra i silos con ossigeno medicale, evidenziando come nelle sale sia presente una pressione negativa, “altrimenti il virus, che sta dentro per la presenza dei malati, potrebbe diffondersi ovunque”. “Così si protegge anche l’ambiente circostante” afferma, rispondendo indirettamente ai dubbi per la presenza dell’ospedale accanto ad un centro commerciale e ad un palazzetto dello sport. “Tutto è stato fatto come prevede la legge ed è un sistema modernissimo ed efficace”.

Il primo bullone è stato messo il 20 di aprile, tre giorni dopo il suo annuncio. E oggi è tutto un frastuono di trapani, fresatrici, martelli e fili passati di reparto in reparto. Dentro mostra i quadri elettrici ed i server. “Tutto è cablato e informatizzato, con ogni letto che avrà il proprio monitor”. Poi c’è la cosiddetta camera calda, vale a dire l’ingresso dell’ospedale. “Si apre un portellone rosso, entra l’ambulanza, scarica il malato che viene portato dentro, mentre la stessa ambulanza viene ripulita e sterilizzata, per poi ripartire. Subito dopo c’è area del triage, per controllare il malato e destinarlo in uno dei due reparti”.

Partiamo da quella che diventerà la rianimazione, con moduli costituiti da 14 posti letto, 7 per lato. Sulle testate ci sono tutti gli attacchi: gas, aria compressa, ossigeno, corrente per ventilatore, pompe e monitor. Per l’arrivo dei letti c’è da attendere la giornata di martedì. “Ogni modulo è completamente autonomo, è come se fosse un’astronave con la sua cabina di volo chiusa ed estraniata dal resto del mondo. Qui dentro c’è la pressione negativa, si entra e si esce solo da un lato. Medici ed infermieri hanno tutto quello che serve loro e possono lavorare isolati. Quando escono, si devono spogliare, si fanno la doccia e se ne vanno: è l’unico modo per non essere contaminati. Insomma, un passaggio obbligato che evitare qualsiasi rischio”.

Attraversiamo la terapia intensiva, con i moduli (dalle stesse caratteristiche) ancora in fase di montaggio. Fili verdi per l’informatica, blu per i quadri elettrici, i passaggi dove arriveranno i tubi dell’ossigeno e dei vari gas. “Alla fine ci saranno 84 letti, 42 per reparto, con un percorso sterile. Il personale medico lo deciderà la Regione Marche, sta facendo la pianta organica e per la settimana prossima sarà tutto pronto”.

Ci indica la Tac, protetta dalla plastica ed adagiata in una sala già schermata con il piombo. “Ha 124 strati, è la più moderna che esiste e la installeremo la prossima settimana”. Accanto c’è la sala operatoria e a terra si notano rotoli per la coibentazione da 120 chili ognuno.

FORMARSI PER LA GESTIONE DELLE EMERGENZE – All’interno di una delle sale riunioni nel piano sovrastante, Bertolaso è atteso per la registrazione del suo intervento destinato agli studenti universitari. Il medico ed ex capo della Protezione Civile – che tiene a ribadire il suo essere “fermano d’adozione” (da anni, infatti, frequenta Santa Vittoria in Matenano dove ha un’abitazione) – è titolare di cattedra del corso in “Gestione delle emergenze” presso l’Università degli Studi Internazionali, un ateneo romano che prepara futuri diplomatici ed esperti di sicurezza.

Accanto a lui, come in altre occasioni, c’è Francesco Lusek, esperto di Protezione civile, che contribuisce portando un percorso vissuto sia all’estero ma anche a livello territoriale negli ultimi anni. “Il preside della Facoltà di Scienze Politiche – spiega Lusek – relativamente al corso di laurea magistrale in ‘Sicurezza internazionale’, ha voluto inserire, nel corpo docente, una serie di figure di comprovata esperienza in modo da garantire agli studenti una visione realistica e multidisciplinare del settore. L’obiettivo è quello di formare tecnici in grado di affrontare eventi sempre più complessi, come la pandemia che in questi mesi ha colpito l’intero pianeta”.

Ma non finisce qui. Il team universitario di Bertolaso, infatti, è stato chiamato a costituire, nei prossimi mesi, un centro di ricerca finalizzato a studiare metodologie di intervento innovative, ma anche pacchetti formativi mirati per gli addetti ai lavori. “Ricordiamo che il sistema di Protezione civile coinvolge un vasto numero di professionalità, che devono lavorare in modo sinergico tra loro” conclude Lusek.

LA LEGGE DI MURPHY – Il punto nodale, afferma Bertolaso, è come si deve gestire o come non si deve gestire un’emergenza. E questo comprende diversi aspetti che un manager del settore deve saper affrontare e prevedere, imprevisti compresi. “La data di apertura del 3 maggio di questo Covid Hospital l’ho scritta io sulla base di un cronoprogramma che avevamo immaginato. Essendo una struttura complessa ed articolata, c’è stata tutta una serie di imprevisti, nonostante stiamo lavorando a pieno regime. Ma chiudere il 3, il 7 o l’8 maggio non è un grandissimo dramma”. Oggi, evidenzia, sappiamo che l’epidemia sta mollando leggermente la presa e che si può alleggerire il grande peso del Lockdown. Ma tra i comandamenti fondamentali di chi si occupa di situazioni complesse c’è quello di un ingegnere aeronautico statunitense, Ed Murphy. “É l’autore della famosa legge di Murphy che dice: preparati sempre al peggio. E l’esempio più grande è questa emergenza, che riguarda tutto il mondo. Sapevamo che si trattava di una situazione grave che riguardava parte della Cina, ma pensavamo fosse circoscritta a quell’ambito. Invece, a macchia di leopardo il virus si è allargato in Europa, con l’Italia in prima linea. E quasi non c’è Paese al momento che sia stato risparmiato da questa drammatica epidemia”.

Si è reagito, ribadisce, con alcuni che hanno reagito meglio di altri. Ma per affrontare situazioni simili serve consapevolezza, sia sul fronte istituzionale che nell’opinione pubblica. “Se questa non è disposta a fare sacrifici tutto diventa più difficile. Ricordo l’esperienza in Sierra Leone per gestire l’epidemia di Ebola, con la gente che non credeva che potesse essere così grave. Questo approccio in Europa ha complicato il lavoro di chi doveva mettere in piedi strumenti finalizzati a gestire l’emergenza. Ecco perché il Lockdown è fondamentale, è l’unica misura in mancanza di un vaccino o di farmaci adeguati per fronteggiare l’aggravarsi della malattia”.

Raggiunta una fase di relativa tranquillità, è giunto però il momento di programmare. “L’idea è che comunque non siamo fuori, non lo saremo per parecchi mesi e nessuno esclude che ci sia una recrudescenza. Forse servirà un’ulteriore mobilitazione contro il Covid-19 e per questo si deve pianificare bene il futuro prossimo, che noi qui abbiamo sintetizzato in uno schema”.

È tutto impresso alle sue spalle, su una parete della sala riunioni: ci sono le istituzioni che devono tenere la guardia sempre più alta, preparandosi agli scenari peggiori; c’è l’esigenza di dotarsi di riserve strategiche per non farsi trovare impreparati, come garantire tamponi, dotare tutta la popolazione ma soprattutto gli operatori in prima linea di protezioni individuali, mascherine, guanti, visiere e quant’altro; c’è l’assistenza domiciliare e l’utilizzo di saturimetri e ventilatori; c’è il lavoro sul territorio, con un team di medici ed infermieri preparati e protetti, per intervenire a casa e ovviamente trasferire eventuali pazienti presso strutture attrezzate ad hoc come il Covid Hospital e non in normali nosocomi. “Sono i motivi per i quali abbiamo lavorato sia sull’esperienza dell’ospedale della Fiera di Milano, sia qui nelle Marche: due prototipi, dai quali poi deve partire una vera e seria pianificazione sanitaria su tutto il Paese”.

L’ESEMPIO DI MILANO – A metà marzo, ricorda Bertolaso, la regione Lombardia, la più colpita dal virus, si è ritrovata con un sovraffollamento degli ospedali. Realizzare quel primo Covid Hospital ha permesso di aggiungere 53 posti letto di terapia intensiva, che a fine maggio diventeranno 205. “Si tratta del centro con questo tipo di assistenza sanitaria più grande in tutta Europa. Si attacca questa realtà perché finora sono occupati pochi letti, ma siamo abituati alle critiche come chiunque gestisca un’emergenza. Bisogna essere capaci di saper programmare, di avere visioni e guardare oltre la siepe”.

Nelle Marche la strategia è diversa. “Quando questa struttura sarà pronta, sappiamo già che da tutti gli ospedali di questa provincia e di quelle limitrofe saranno trasferiti i malati che necessitano di terapia intensiva, per cui gli ospedali si libereranno di questa vicenda”.

Ma ribadisce, citando ancora la legge di Murphy, come ci sia la necessità di prepararsi al futuro, guardando agli scenari dei mesi e degli anni prossimi. “Ogni previsione dice che torneremo a confrontarci con questa problematica, quindi avere queste strutture per la terza fase è fondamentale. Ogni altra regione dovrà fare lo stesso ed è lo stesso Governo che raccomanda di avere strutture dedicate. Non è più compatibile la convivenza con altre patologie, il rischio di contaminazione è reale e va evitato. Nessuno ci garantisce che non ci si ritrovi nelle situazioni passate, quindi è bene prepararsi. Ci si deve addestrare per essere preparati ad affrontare nuove situazioni di criticità, fino a quando non ci saranno un vaccino e i farmaci necessari. E dobbiamo lavorare sullo scenario peggiore, che ci dice che dobbiamo avere tante strutture di questo genere realizzate in tutto il Paese”.

TRA AUTORITÀ E AUTOREVOLEZZA – Da ex capo della Protezione Civile, Bertolaso ha affrontato diverse emergenze, affrontando anche numerose polemiche. “Nel primo decennio del millennio si parlava di un potere assoluto della Protezione Civile e questo potere lo si criticava. Quando si parla di emergenza bisogna esser capaci di ascoltare tutti, ma anche di prendere una decisione, mettendoci la faccia. E non lo fai perché hai l’autorità di decidere, lo fai se sei capace di decidere, se ti sei conquistato qualcosa sul terreno con l’esempio ed il lavoro. Quindi, serve soprattutto l’autorevolezza nell’agire, che è cosa ben diversa dall’autorità”.

E lui, “da pensionato che non ha nessuna autorità in nessun ambito, a Milano come nelle Marche”, punta deciso sulla propria credibilità e sull’esperienza maturata. “Ho saputo motivare, ho fatto squadra e messo in piedi le migliori energie di un sistema di una funzione che si chiama Protezione Civile. È come un’orchestra, dove ognuno suona uno strumento e c’è un direttore. I vari musicanti sono Vigili del Fuoco, Carabinieri, Polizia, Guardia di Finanza, Marina, Guardia Costiera, Croce Rossa, Ordine di Malta, sindaci, Province, Regioni, prefetti: insomma, tutta l’istituzione nazionale. Ma sono anche gli ingegneri, quelli che guidano gli autobus, i medici, gli infermieri, le pubbliche assistenze: perché tutti quelli che lavorano al servizio del Paese fanno parte della Protezione civile. È una realtà complessa, gigantesca, e la capacità deve essere quella di metterli insieme e fargli suonare lo stesso spartito”.

Questo, dice, in un Paese con 60 milioni di tecnici. “C’è chi afferma che questa sia una cattedrale nel deserto. Allora penso a quell’ingegnere in Liguria, che diceva che bisognava mettere in sicurezza un ponte, che per farlo occorreva anche chiudere l’autostrada. Non è stato ascoltato e le conseguenze le conosciamo. Se gli avessero dato retta magari lo avrebbero accusato di danno all’erario e avrebbe passato tutti i guai di questo mondo. Chi vuole mettere la faccia per risolvere i problemi corre questi rischi in Italia”.

Senza nessuna provvedimento straordinario (“e senza autorità”), l’ospedale di Civitanova è stato però realizzato a tempo di record. “Con fondi privati, senza togliere un euro dalle tasche degli italiani e con un’organizzazione non governativa che ha elevate competenze tecniche che servono a mettere tutti insieme e a superare tempi lunghi – rimarca -. Lo vogliamo criticare? Fatelo, ma vederemo se sarà stata un’iniziativa inutile”.

IL FUTURO DELLA STRUTTURA – Infinite sono state finora le discussioni sulla struttura, ma l’opinione pubblica si è anche divisa fortemente sul suo futuro. Un’ipotesi formulata dallo stesso Bertolaso è che una volta terminata l’emergenza potrebbe diventare un centro specialistico per determinate patologie, modulato a seconda di quelle che saranno le esigenze sanitarie del territorio marchigiano. Ma la decisione finale, ovviamente, spetterà al livello politico regionale. “È un tale gioiello e con una tale tecnologia che sarebbe davvero sciocco pensare di smontarlo successivamente – conclude -. Si può fare, ci mancherebbe, ma non avrebbe alcun senso”.

VOLONTARI E PROFESSIONISTI INSIEME – A puntualizzare il lavoro dell’Ordine di Malta è il presidente nazionale Gerardo Solaro del Borgo. “Bertolaso ci ha coinvolto nella costruzione di un ospedale Covid a Milano per la gestione della fornitura del materiale e degli apparecchi sanitari. Già lì eravamo con una trentina di volontari a seguire il progetto e dare supporto ai professionisti. In quel periodo siamo stati chiamati anche nelle Marche, con Bertolaso che ci ha indicato come committenti”.

E’ poi iniziata la raccolta fondi, gestita dall’ufficio di Roma e sulla quale il presidente rimarca la massima trasparenza nella gestione. “Una volta nelle Marche abbiamo coinvolto i nostri volontari regionali ed il raggruppamento locale, coadiuvato anche dai volontari di Milano, ha iniziato il supporto alla progettazione. La cosa importante è stata cercare di unire esperienza e professionalità dei nostri volontari con l’attività dei professionisti chiamati sul campo, un vero modello di gestione in emergenza”.

 

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