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«Sono stato rapito e torturato,
ero pronto a morire in mare
pur di non tornare in Libia»

ANCONA - Ochek, eritreo di 21 anni, è uno dei 73 migranti salvati nel Mediterraneo dalla Geo Barents, in arrivo domani allo scalo dorico. Racconta dei trafficanti, delle stanze in cui erano rinchiusi lui e i suoi compagni, della morte di molti di loro e delle sevizie che ha dovuto subire: «Non vedo l'ora di raggiungere l'Italia e toccare terra per iniziare a dimenticare tutto quello che ho vissuto»

Ochek (foto di Nyancho NwaNri)

 

«Sono stato torturato. Mi hanno legato le mani e bruciato con una sbarra di ferro ardente. Ho il petto pieno di cicatrici». Mentre la Ocean Viking è sempre più vicina al porto di Ancona con i suoi 37 migranti, altre ore di navigazione deve invece farle ancora la Geo Barents, il cui arrivo potrebbe avvenire domani o giovedì ma «purtroppo il meteo è avverso e l’orario di arrivo non è un calcolo immediato», fanno sapere dalla nave di ricerca e soccorso di Medici Senza Frontiere. E proprio da questa imbarcazione, tra i naufraghi salvati, arriva la storia di Ochek (nome di fantasia), uno dei 73 sopravvissuti salvati nel Mediterraneo. 

«Ho 21 anni e sono originario dell’Eritrea – racconta in arabo -. Quando avevo 4 anni mia madre ha deciso di andare in Sudan per salvarmi dal servizio militare. In Eritrea i bambini di 8 o 9 anni vengono arruolati nell’esercito. Un giorno il governo ha portato via mio padre e mia madre ha avuto paura che succedesse lo stesso a me». Ochek ha vissuto in Sudan «per circa 13 anni – prosegue -, ma da quando avevo 14 anni avrei voluto andarmene, non pensavo che sarebbe stato così tanto pericoloso. Pensavo sarebbe stato semplice arrivare in Libia e poi in Europa. In Sudan ho fatto diversi lavori, ho lavorato in un ristorante e in una miniera d’oro nelle montagne. Poi ho deciso di andare in Libia e lì le cose sono cambiate».

Ochek mentre racconta la sua vita

Ecco poi l’arrivo in Libia dove, per arrivare «ho pagato un intermediario – spiega -. Lui mi aveva detto che avrebbe pagato il trafficante, ma il trafficante mi disse che non aveva ricevuto niente e così avrei dovuto pagare di nuovo o avrei dovuto lavorare per lui. Non avevo nessun parente in grado di mandarmi del denaro e sono stato costretto a lavorare per lui in una fattoria, con il bestiame. Non sempre mi trattava bene, così dopo 3 mesi sono fuggito».

Il racconto prosegue. «In Libia gli eritrei sono costretti a vivere nascosti. Dobbiamo rimanere in casa, raramente usciamo perché se ci vedono ci rapiscono per chiedere il riscatto. Ci chiedono di pagare in dollari perché credono che abbiamo parenti in Europa. Sono stato rapito due volte ma entrambe le volte sono riuscito a fuggire. Sono stato rinchiuso in una piccola stanza sovraffollata, con una finestra piccola. La mattina – prosegue – ci davano un pezzo di pane e c’era una tanica d’acqua desalinizzata, era amara. Dentro la stanza c’era un bagno e dormivamo su un fianco, uno attaccato all’altro per terra. Eravamo 70/100 persone ma non c’era un limite di persone, i trafficanti continuavano a portare gente».

Ochek mentre racconta la sua vita

Poi, finalmente, la fuga. «Le guardie bevevano e fumavano fino all’alba – riprende – così alle 2 di notte siamo riusciti a scappare. Io sono andato in un posto dove vivevano altri sudanesi e ho trovato lavoro. Devi essere fortunato, qualcuno ti paga altri no. Io sono riuscito a guadagnare abbastanza per pagare un trafficante. Mentre ci stavano trasferendo verso Tripoli – aggiunge -, però, siamo stati arrestati e ci hanno imprigionato di nuovo in una stanza sovraffollata. Maltrattamenti, abusi, umiliazioni erano all’ordine del giorno. Era una milizia. Siamo rimasti lì per 15/20 giorni».
Ochek, fino al giorno in cui non ha lasciato la Libia, ha subìto «torture e maltrattamenti e ho visto con i miei occhi persone picchiate e maltrattate. Sono stato torturato. Mi hanno legato le mani e bruciato con una sbarra di ferro ardente. Ho il petto pieno di cicatrici. Ci colpivano con il fucile o ci bruciavano il petto con metalli ardenti. Ci costringevano a chiamare la famiglia per chiedere aiuto, per mandare i soldi del riscatto. Dopo 15 giorni di torture, uno di questi trafficanti, un uomo anziano di circa 80 anni, vedendomi in quello stato ha detto agli altri che sarei morto se avessero continuato a torturarmi. Altre persone che avevano già pagato il proprio riscatto hanno raccolto altri soldi e hanno pagato anche per me. Mi hanno messo in macchina e mi hanno lasciato a Tripoli dove ho trovato un gruppo di sudanesi con cui sono rimasto».
Il racconto si fa sempre più crudo. «In Libia la tortura ti segue dentro e fuori dal carcere o nelle stanze dove ti rinchiudono. Di notte, ti puntavano una pistola alla testa, ti prendevano tutti i soldi e ti picchiavano. Sei costretto ad entrare in queste stanze dove ti fanno morire di fame. Se parli dei maltrattamenti ti picchiano ancora

Ochek (foto di Nyancho NwaNri)

di più o sei costretto a rimanere lì per più tempo. Ci facevano mangiare pasta mischiata ai sonniferi e al mattino ti trovavi un morto accanto mentre quello dietro di te era stato torturato. In bagno trovavi chi si puliva le ferite mentre bevevi acqua amara vicino a lui. Quando mangiavi c’era chi ti vomitava accanto. Un mio amico aveva sognato ad occhi aperti di andare in Europa. Al mattino l’ho trovato morto e ho coperto il suo corpo. Io ero pronto a morire in mare pur di non essere catturato dalla guardia costiera libica ed essere riportato indietro e subire di nuovo umiliazioni e torture».
E per prendere il mare, Ochek ha dovuto avere a che fare con i trafficanti. «La notte ci portavano fuori in gruppi di 10 persone. Ci hanno fatto portare il gommone e ce lo hanno fatto mettere in mare. Siamo saltati su e abbiamo pregato. Ci siamo affidati a Dio e siamo partiti. Le onde ci portavano su e giù ma, nonostante ciò, non avevamo paura fino a che quell’uomo non ha gridato che c’era la guardia costiera libica. Tutti sono stati presi dal panico, le persone vomitavano, avrebbero preferito morire in mare».
Ma ora Ochek è a bordo della nave di Medici Senza Frontiere diretta ad Ancona. «Mi sento al sicuro ma, allo stesso tempo, non sono ancora completamente sollevato perché sono ancora in mare e ho paura di tornare indietro. Non vedo l’ora di raggiungere l’Italia e toccare terra per iniziare a dimenticare tutto quello che ho vissuto in Libia e in Africa».

Intanto proseguono i lavori della Protezione Civile per completare le strutture di prima accoglienza alla banchina 22 dello scalo. In prefettura si sta preparando tutto il necessario per ciò che concerne un primo cambio d’abbigliamento da fornire ai migranti della Ocean Viking: mutande, calzini, maglie ed altro viene suddiviso in grossi sacchi che verranno poi trasportati al porto dove l’arrivo della nave dovrebbe avvenire alle 20, almeno stando all’orario di prenotazione della banchina fornito alla prefettura.
Da considerare c’è poi anche il traffico marittimo, cioè le navi e i traghetti in entrata e uscita dal porto, che hanno una loro tabella oraria da rispettare nel caso in cui l’imbarcazione dovesse arrivare con anticipo.

Redazione CA

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