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Antartide, la sfida del medico
Andrea Molesi ai confini
del mondo tra ghiaccio e cielo

L'INTERVISTA - L'anestesista dell'ospedale di Jesi è uno dei due medici di spedizione italiani, protagonisti alla XXXIII Campagna Antartica 2017/2018 del PNRA. "Ho deciso di partire per mettermi alla prova dal punto di vista professionale. E' un'esperienza molto bella e intensa, per certi aspetti difficile - racconta - Lavoriamo tutti insieme per un fine comune, importante. Stare lontano dalla famiglia però fa nascere parecchia nostalgia"

Un angolo di Antartide ripreso dall’obiettivo di Andrea Molesi

Il medico Andrea Molesi al telefono racconta: “E’ un’esperienza che ripeterei ma magari non il prossimo inverno!”

L’Antartide come metafora della vita: un mondo fatto di ghiaccio e cielo, un luogo luminoso e inospitale, solido ma non refrattario al cambiamento, da sfidare. “Ho scelto di lavorarci perché dal punto di vista professionale mi ha dato la possibilità di mettermi alla prova. Qui alla base ‘Mario Zucchelli’, a Baia Terra Nova siamo soltanto due medici a gestire l’attività sanitaria per la medicina ambulatoriale, per quella del lavoro, e soprattutto per le eventuali urgenze”. L’anconetano Andrea Molesi, 43 anni, è uno dei due medici di spedizione, protagonisti alla XXXIII Campagna Antartica 2017/2018 del Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (PNRA). Il 24 ottobre scorso il dirigente medico del reparto di Anestesia e Rianimazione dell’ospedale di Jesi, dopo un volo di quasi 9 ore dalla Nuova Zelanda, è atterrato sul ghiaccio del Mare di Ross con i primi partecipanti italiani alla nuova missione realizzata con il contributo dell’Enea, che nel suo caso, durerà 4 mesi.

Dottor Molesi, che cosa l’ha portata in Antartide?
“Lavoro all’ospedale di Jesi dal 2008 ma una buona parte della mia attività l’ho incentrata nella medicina d’urgenza extra ospedaliera anche in ambienti impervi. Dal 2000 lavoro come medico per il Soccorso alpino italiano, ho approfondito studi di Medicina di montagna e medicina in ambienti estremi. Sono inoltre un medico della Croce Rossa militare italiana, e presto servizio sull’elisoccorso per l’Aiut Alpin Dolomites Soccorso Alpino in Val Gardena, in convenzione con la Provincia autonoma di Bolzano. Quest’anno ho anche cominciato ad approfondire studi di medicina iperbarica e subacquea e attraverso questo canale è emersa la possibilità di poter lavorare per il PNRA. La mia competenza era richieste sia per la tipologia di ambiente estremo su ghiaccio e neve, sia per l’attività iperbarica che palombari e incursori della Marina e dell’Esercito svolgono qui in Antartide in supporto alla ricerca scientifica. Non posso che ringraziare il direttore del mio reparto al ‘Carlo Urbani’, il dottor Tonino Bernacconi, che mi ha sostenuto in questo percorso, firmando il nulla osta alla mia partenza pur sapendo di perdere un’unità per 4 mesi nei turni di lavoro. Dal punto di vista personale ho valutato che capita raramente nella vita di poter lavorare in Antartide. Un’occasione che si fa fatica a non prendere al volo”.

Per andare a vedere le foche è necessario percorrere almeno 30 chilometri a piedi dalla base italiana, in un deserto di solitudine e silenzio, “non tutti se la sentono di affrontare un ambiente insicuro”

Come si svolge la sua giornata lavorativa alla base?
“E’ particolare. L’ambulatorio medico è aperto per tutta la durata delle ore diurne, dalle 8 del mattino fino alle 22. In questo momento in Antartide c’è luce 24 ore su 24. Il PNRA sta mettendo in campo una serie di cantieri di costruzione nelle vicinanze della base per l’ampliamento della struttura e per la realizzazione di una nuova pista di decollo e atterraggio di aerei e si lavora senza soluzione di continuità. L’ambulatorio quindi è aperto fino a sera, poi però noi medici garantiamo la pronta disponibilità h24 in urgenza-emergenza. L’Antartide è un ambiente estremo. Nell’eventualità che si manifesti il caso di un paziente con traumi o patologie importanti, con gradi diversi di instabilità, abbiamo di fronte una evacuazione di almeno 9 ore di aereo per arrivare in Nuova Zelanda dove si trova il primo ospedale. Ma prima quella evacuazione deve essere autorizzata e organizzata. Vanno messe in conto le eventuali cattive condizioni metereologiche, gli aeroporti chiusi o la mancanza di disponibilità dell’aereo stesso. Da queste parti un’appendicite non sarebbe considerato un intervento di ruotine perché il paziente impiegherebbe almeno 12 ore prima di arrivare nella sala operatoria dell’ospedale più vicino. Insomma potrebbe trasformarsi in una situazione limite perciò i medici di spedizione devono saper gestire qualsiasi emergenza. Negli anni passati fortunatamente sono stati rari i grandi incidenti anche perché chi arriva qui è molto preparato, addestrato e anche nel lavoro mette quell’occhio di riguardo in più alla sicurezza”.

Tra Italia e l’Antartide c’è un fuso orario di 12 ore di differenza

Quali sono quindi le patologie più frequenti che curate?
“Lavoriamo soprattutto su quelle che possono essere considerate affezioni stagionali: riniti, sinusiti, raffreddori, tosse, bronchiti. L’altra metà dei casi è invece collegata ai traumi che possono avvenire nei cantieri. Quest’anno, abbiamo trattato pochi traumi minori agli arti e qualche caso di congelamento. L’ambulatorio è dotato di attrezzatura idonea per seguire in loco questi casi”.

Ci sono stati fuori programma durante il viaggio? Il suo rientro in Italia è confermato per febbraio 2018?
“Sono arrivato qui il 24 ottobre e il ritorno in Italia è previsto per metà febbraio. Ad oggi i tempi sono stati rispettati. Così però non è andata ad altri colleghi della logistica e della ricerca. Il loro viaggio ha subito variazioni di date. L’approdo per l’Antartide passa attraverso la Nuova Zelanda, qualcuno si ferma anche sull’Isola di Tasmania. Il problema dei ritardi quest’anno è collegato ad una abnorme presenza di neve rispetto al passato. Di solito il clima qui è molto secco e il ghiaccio la fa da padrone. All’apertura della base invece quest’anno hanno trovato oltre un metro e mezzo di neve che hanno dovuto portare via per permettere agli aerei di atterrare. Un’attività che si è protratta per quasi tutto il mese di novembre. Adesso stiamo aspettando la rottura del pack per le prime operazioni in acque libere. Il pack antartico però non si sta rompendo e ci sono almeno 2000 chilometri di ghiaccio prima di arrivare al mare aperto”.

E’ colpa dei mutamenti climatici subiti dal pianeta?
“Ci sono variazioni climatiche, ad esempio in questi giorni sta nevicando, cosa infrequente a dicembre in Antartide. Qui è primavera. I metereologi e gli scienziati però parlano di piccole variazioni stagionali più che di veri e propri cambiamenti climatici. Parlano di un bilancio di massa: nella parte occidentale dell’Antartide registrano una riduzione dei ghiacci, mentre nella parte orientale un aumento dei ghiacci con innalzamento del plateau. Sulla costa invece ci sono aree deglaciate che stanno aumentando di dimensioni, tanto da permettere la realizzazione di nuove costruzioni su terra. Rispetto a 10 anni fa non c’è dubbio che sta cambiamo la temperatura: in un passato recente sono state registrate addirittura temperature sopra lo zero, al momento il termometro si attesta tra i -10° e i -5°”.

Antartide, la base italiana ‘Mario Zucchelli’

Sembra proprio soddisfatto di questa esperienza, la ripeterà il prossimo anno?
“Finora la considero molto buona. Stare lontano dalla famiglia però fa nascere parecchia nostalgia. Una nostalgia che non affiora subito ma che alla fine arriva. E’ un’esperienza che ripeterei ma magari non il prossimo inverno! Come tutte le esperienze estreme è difficile da raccontare. Le foto non rendono giustizia di questo angolo della terra. La base ‘Mario Zucchelli’ di per se è già un pezzetto d’Italia, è l’ambiente esterno che fa la differenza. E’ inquietante camminare da soli in un deserto come questo e fa riflettere parecchio. Quando sono arrivato ho cominciato a camminare oltre i confini della base per esplorare l’area ma ci ho messo quasi un mese per allontanarmi e riuscire a fare 5-6 chilometri. Qui dopo 200 metri ti ritrovi nel nulla più assoluto: incontri solo ghiaccio, montagne e sassi, non volano uccelli, non ci sono animali”.

Una specie di ritiro spirituale….
“Per certi versi sì e anche di più. Molti colleghi della base non mettono per niente fuori il naso. Chi ha già fatto altre spedizioni non ha probabilmente la curiosità per farlo, forse non ha stimoli da questo punto di vista. C’è anche però chi non vuole uscire perché non la considera una situazione rilassante. E’ bellissimo andare a vedere le foche ed i pinguini ma per arrivarci bisogna camminare anche per 30 chilometri e ci si allontana da quello che è sicuro. Questa mancanza di sicurezza può incidere sul morale. Uscire fuori dalla base significa poi dover sempre mettere in atto una serie di procedure, tra le quali quella di portarsi dietro una radio per mantenere un contatto diretto. Non tutti sono così disinvolti nell’affrontare questo ambiente”.

Quest’anno si sta registrando una primavera particolarmente ‘nevosa’ in Antartide

C’è il rischio concreto di restare soffocati dall’ansia?
“Non abbiamo registrato casi ma, certo, al corso di formazione ci insegnano anche ad interagire anche con questo genere di situazioni. La base comunque è parecchio abitata e ci si sostiene gli uni con gli altri. Tutti vengono ben supportati dal gruppo e nessuno viene lasciato indietro. Siamo tutti qui per lavorare e non ho sentito mai nessuno litigare ne’ qualcuno che ha chiesto di rientrare a casa prima del tempo. La base italiana rispetto alle altre è più piccola. La maggior parte dell’attività scientifica viene fatta negli spazi interni, mentre quella logistica si svolge al di fuori. Le ore dei pasti scandiscono molto bene la giornata e ci ritroviamo tutti insieme in questi momenti. Invece nelle aree comuni ci rivediamo durante le ore serali. Non si può certo parlare di vera privacy perché gli spazi sono, per forza maggiore, ristretti. Le camere hanno almeno 4 posti letto ciascuna ma abbiamo la possibilità di oscurare i singoli letti in modo da non ricevere luce. E’ evidente che chi viene qua sa già che cosa troverà e non pretende certo un trattamento di tipo alberghiero”.

Per iniziare le immersioni nelle acque libere, i ricercatori stanno aspettando l’apertura del pack antartico che però ritarda

Sembra quasi il luogo ideale per l’addestramento di un astronauta…
“Sì, potrebbe essere benissimo la base di partenza per l’addestramento di un astronauta, tant’è che chi va a fare il winter-over, l’inverno australe alla base ‘Concordia’, viene seguito dall’Esa, l’ente spaziale europeo proprio per i problemi di isolamento e di rapporti interpersonali. Qui nella base invece siamo molti di più e il via vai è continuo. Ci sono ricercatori che stanno qui solo 20 giorni, ci sono tecnici e operai della logistica che sono tornati a casa prima delle ferie natalizie. C’è insomma anche la possibilità di restare un solo mese invece che 4 come ho scelto di fare io. Confermo però che la lontananza da casa si sente”.

Magari da questo scenario immutabile e impervio si riesce ad apprezzare anche l’Italia, con le sue criticità ed i suoi limiti…
“Direi che si smette di vedere qualsiasi difetto possa avere l’Italia, anzi se ne apprezzano i pregi. Qui siamo tutti italiani ma si respira un clima internazionale. Le basi di ricerca come la nostra hanno la possibilità di avere transiti internazionali. Incontriamo spesso coreani, neozelandesi, americani, cinesi, australiani e tedeschi che con i francesi sono nostri vicini di casa e passano di qui per andare alla base ‘Dumont d’Urville’ e alla base ‘Concordia’. Per due mesi è stato anche nostro ospite un ricercatore giapponese che stava facendo studi per un’università neozelandese. Insomma il livello culturale è alto, lavoriamo tutti per un fine comune, importante. Per questo smettiamo di essere e sentirci soltanto italiani”.

(m.p.c.)

Antartide, tra i marchigiani in missione c’è anche un medico di Jesi

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