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Minacce dell’Ue e governo remissivo:
Banca Marche, un crac evitabile

IL COMMENTO - La recente sentenza della Corte europea secondo cui l'intervento del Fondo interbancario non si configura come aiuto di Stato, per un verso sbugiarda i due troppo zelanti commissari di Bruxelles dell'epoca, dall’altro carica di pesanti responsabilità l'esecutivo Renzi che si è dimostrato pusillanime davanti agli avvertimenti che si sono poi rivelati del tutto infondati

 

di Fabrizio Cambriani

Dunque, Banca Marche poteva essere salvata. E assieme al locale istituto di credito, potevano essere salvati anche centinaia di milioni di euro di investimenti dei piccoli risparmiatori. La notizia che, come un bomba, avrebbe dovuto esplodere e monopolizzare l’attenzione di tutta l’opinione pubblica, è passata invece in sordina, relegata a metà, tra le curiosità e le previsioni del tempo. Martedì 19 marzo, nella festività di San Giuseppe, la Corte europea, ha dato ragione all’Italia nel ricorso presentato contro la decisione della Commissione Europea del 2015 nel caso delle Casse di Teramo (Tercas): l’intervento del Fondo interbancario di Tutela dei depositi (Fitd) – afferma la Corte – non integra un aiuto di Stato.

Margrethe Vestager

Adesso però, per capire meglio il tutto, bisogna fare un salto all’indietro nel tempo, fino al tardo autunno del 2015. Il governo Renzi è alle prese con la crisi di quelle che ormai sono diventate le famose quattro banche, oramai tecnicamente fallite: Banca Marche, Banca Etruria, Carichieti e Cariferrara. Ma deve fare anche in fretta, perché dal primo gennaio 2016 entra in vigore il cosiddetto bail in, cioè la riforma del sistema bancario voluta dall’Unione Europea che prevede, in caso di fallimento degli istituti di credito, pesanti oneri per azionisti, obbligazionisti e perfino per i semplici possessori di conti correnti. Tra le quattro banche la più importante per dimensioni, portafogli e numero di sportelli è indubbiamente Banca Marche. Molte le ipotesi prese in considerazione, ma quella più concreta e realizzabile è il ricorso al Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd): uno strumento alimentato con 2,2 miliardi dai contributi di 208 banche italiane. Serve a garanzia dei titolari di conti correnti e – secondo il governo – poteva essere usato per Etruria, Ferrara, Chieti e Banca Marche evitando a Bruxelles la contestazione di un aiuto di Stato. Si tratta infatti di risorse private. L’intento, suggerito e condiviso da Bankitalia, è quello di evitare il provvedimento di risoluzione che avrebbe colpito pesantemente i risparmiatori azzerando i loro investimenti su azioni e obbligazioni.

Jonathan Hill

Tutto sembra andare per il verso giusto, tanto che diversi organi di stampa danno l’operazione di salvataggio attraverso il fondo interbancario, praticamente per acquisita. A questo punto entrano in scena due figure, una donna e un uomo che pro tempore svolgono i ruoli di commissari europei. Si tratta della danese Margrethe Vestager, commissaria alla concorrenza e del britannico Jonathan Hill, commissario alla stabilità finanziaria. I due non sono d’accordo e lo fanno pesare. Facendo leva sul loro ruolo, manifestano tutta la loro contrarietà all’operazione. Il 19 di novembre 2015, addirittura mettono nero su bianco, in una lettera inviata al governo italiano, che «nel caso venga usato un meccanismo di garanzia dei depositi e questo meccanismo venga riconosciuto come aiuto di Stato, la risoluzione delle banche scatta autonomamente in base alla direttiva Brrd». Si tratta di una vera e propria lettera ricattatoria, che riletta con il senno di poi, assume perfino i toni della minaccia mafiosa quando i due spiegano che il meccanismo di garanzia dei depositi rischia di essere riconosciuto come aiuto di Stato e, avvisano sinistri, che anche i correntisti sopra i centomila euro e obbligazionisti primari rischierebbero – secondo loro – di non essere mai rimborsati. A supporto delle loro tesi, i due commissari si fanno forti di una fantomatica giurisprudenza della Corte europea.

Matteo Renzi

Qualche tempo dopo, l’11 dicembre del 2015, Salvatore Rossi, direttore generale di Bankitalia, intervistato da Daniele Manca per il Corriere della Sera dirà che Bruxelles aveva proposto tre alternative: la liquidazione, che avrebbe messo a rischio pure i soldi dei depositanti; la risoluzione, cioè il provvedimento adottato poi dal governo Renzi, che ha azzerato azioni e obbligazioni e infine l’intervento di altre banche tramite il fondo interbancario di garanzia. Ma sul terzo punto Rossi aggiunge che «di fatto ci è stato impedito». Alla domanda del perché risponde: «Perché ci hanno detto che se l’avessimo fatto l’Italia avrebbe dovuto subire una procedura di infrazione per aiuti di Stato. Nonostante il fondo sia privato e pagato da privati quali sono le banche italiane». Tutto lascia pensare che sul finire del 2015, ci sia stata una battaglia sotterranea che ha coinvolto l’Italia, la Commissione europea e una parte di questa. Un tutti contro tutti che ha visto, in mezzo, schiacciati e massacrati, migliaia di piccoli risparmiatori, ai quali sono stati azzerati e ridotti in carta straccia tutti i loro titoli. Senza considerare, poi, che le quattro piccole banche sono state acquisite al prezzo di un euro.

La sede della Commissione europea

Oggi, invece con il pronunciamento della Corte Generale dell’Unione Europea, le tesi e le conseguenti minacce compiute dai due commissari – Vestager e Hill – vengono ridotte alla stessa consistenza di un peto: uno spruzzo d’aria momentaneo, pesante e puzzolente. Le loro certezze sulla giurisprudenza della Corte a sostegno della loro posizione vanno a sbattere contro un muro di cemento armato laddove i giudici scrivono che: «Spettava alla Commissione disporre d’indizi sufficienti per affermare che tale intervento è stato adottato sotto l’influenza o il controllo effettivo delle autorità pubbliche e che, di conseguenza, esso era, in realtà, imputabile allo Stato». Anzi, aggiunge: «La Commissione non disponeva d’indizi sufficienti per una siffatta affermazione. Al contrario, esistono nel fascicolo numerosi elementi che indicano che il Fitd ha agito in modo autonomo al momento dell’adozione dell’intervento a favore di Tercas». Affermazioni fin troppo generose per non alimentare se non sospetti, almeno retropensieri. Che volgendo gli occhi alla Germania potrebbero rivelarsi più che fondati visto che è in cantiere una maxi fusione bancaria. Si tratta infatti di Deutsche Bank e Commerzbank, una roba da 1.800 miliardi di euro. Ma il punto nodale è che il 15% di Commerzbank è di proprietà dello Stato federale tedesco. Nel caso la fusione si realizzasse, lo Stato diventerebbe socio di riferimento, nazionalizzando di fatto l’intero sistema bancario della Germania. Con tantissimi saluti ai moniti della Merkel. Le regole sulla concorrenza e sul divieto di aiuti di Stato, evidentemente, valgono solo per gli altri. Lei a casa sua delle direttive Ue ci fa i würstel per l’Oktoberfest.

La protesta dell’epoca dei risparmiatori a Roma

In tutta questa brutta storia il punto determinante è che il governo guidato dal decisionista Renzi, di concerto con il suo ministro dell’economia, non ha avuto il coraggio di andare fino in fondo e sfidare a testa alta i due commissari. Avevano argomenti sufficienti per far valere le loro, anzi le nostre ragioni – peraltro supportate dal Parlamento Europeo – richiamando, in particolare, l’articolo 47 della Costituzione: “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito”. Non lo hanno fatto. Probabilmente a fin di bene, per il timore di danneggiare anche i titolari dei conti correnti. Però, la clamorosa sentenza della Corte europea, se per un verso sbugiarda i due troppo zelanti commissari, dall’altra parte carica di pesanti responsabilità il governo di allora che si è dimostrato remissivo e pusillanime davanti a minacce che si sono poi rivelate del tutto infondate.  Mentre per il cittadino medio questa sentenza contribuisce sempre più ad alimentare un sentimento di sfiducia, incertezza, incredulità e profonda avversione verso l’istituzione Ue.

 

Banca Marche si poteva salvare, fu la Commissione Europea a sbagliare

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